lunedì 26 settembre 2011

Non si ferma la storia

Dal Corriere del Veneto, 22 settembre 2011

Uno straniero ogni dieci veneti. Pudicamente, la chiamiamo «integrazione » ma è l’inizio di un’altra storia, di una strada senza ritorno verso il Veneto multietnico, multiculturale, plurilingue che potremmo definire (se non avesse un significato insultante) «contaminato». L’aspetto più paradossale di questa rivoluzione silenziosa è che invece di decidere tra i due soli comportamenti possibili, rassegnazione o ribellione con ogni mezzo, stiamo ancora remando nell’utopia, un vecchio gioco di società espulso persino dalle case di riposo. Gli ultimi difensori dell’identità regionale, asserragliati nei loro fortini cerebrali, credono ancora, o fingono di credere, che la scelta sia un affare di famiglia. Invece di constatare che siamo soltanto la tessera di un immenso puzzle planetario, si rifugiano nel mito, nell’isola che non c’è, nella resistenza mentale, nel «Veneto ai veneti»: nella Padania. Il leghismo, degenerazione senile del capitalismo, si auto-legittima fornendosi di una madre leggendaria agli albori del terzo millennio.
Mentre una feroce crisi economica dovrebbe riportare al buon senso anche i sognatori di mestiere, qualcuno si ritrae spaventato dalla vita di ogni giorno e si fabbrica i propri avi. Mi scuso per la franchezza: stiamo dando i numeri? Osservando Umberto Bossi e il suo erede Trota in televisione circondati dal loro «popolo », si può credere davvero che quella fosse la festa degli italiani? Che, sia pure in un frangente drammatico come l’attuale, una delle potenze economiche dell’Occidente sembri la parodia di una gita aziendale con i dipendenti che alzano il gomito e si scambiano lazzi e frizzi? Mio Dio, con millenni di storia sulle spalle giriamo in maglietta verde e farnetichiamo di piantare in asso la patria. Duole dirlo, ma visti da qui persino Silvio Berlusconi e il suo harem paiono squarci di realismo in un incubo notturno. Non esiste nessun Veneto dei veneti perché non si può fermare la storia e la storia ci porterà quello che le pare. Tenteremo soltanto di essere, da soli o in compagnia, persone passabilmente civili come lo siamo state finora. Il resto, come diceva Maurizio Costanzo, è vita. Stranieri che tirano la vita con i denti, che giocano l’ultima possibilità scappando dalla terra natia dove non hanno un domani e non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, figuriamoci se hanno anche altre bocche da sfamare. Non siamo noi la causa della loro miseria, come non lo era l’America quando i bastimenti portavano nel Nuovo Mondo la miseria italica, i nostri morti di fame. Non sarà certamente il nostro passato a renderci più lieve il carico che ora tocca a noi sopportare perché, come sa chi vuole saperlo, dalla storia mai nulla si impara oltre alla perseveranza nel commettere sempre gli stessi errori. Però, in fin dei conti, fare appello alla ragione e alla saggezza serve tutt’al più a fabbricare qualche altra illusione per tirare avanti come abbiamo sempre fatto in mancanza di alternative. Diventare ospitali obtorto collo, volenti o nolenti, non è consolante. Qualcuno ha un’altra soluzione che escluda ogni forma di violenza?
Fausto Pezzato

venerdì 16 settembre 2011

Conservatori e immobilisti


Un articolo che fa pensare, dal Corriere del 10 settembre.

Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo.
Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese.
Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.
Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino - con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire - mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.
Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.
Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.
In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.
Ernesto Galli della Loggia

venerdì 9 settembre 2011

Roma Ladrona?


Un bellissimo articolo apparso sul Corriere del Veneto.
Buona lettura!

Roma ladrona? E' Venezia che dorme

Le norme e il federalismo mancato

Nello stillicidio di dati di crescente drammaticità sulla situazione economica del Paese - e l’acme pare raggiunto dall’inusitato richiamo del Presidente della Repubblica del 5 settembre a tutte le forze politiche per sollecitare interventi coraggiosi e rapidi- e nel carosello di proposte di soluzione che s’accavallano, quello che frastorna l’uomo della strada è la varietà dei dati ammanniti da fonti anche apparentemente serie o che si avrebbe ragione di ritenere tali. In un’autorevole trasmissione di approfondimento, tra «ospiti» eccellenti e blasonati di titoli accademici altisonanti, si dibatteva dell’ormai solito refrain che «anche i ricchi paghino», pacifico per tutti che tale si dovesse considerare chi denuncia un reddito superiore a 200 mila euro. Sorprendente è stato che i due specialisti a confronto fondassero le loro teorie di rimedi su dati statistici radicalmente diversi: per l’uno i nababbi da spennare erano esattamente 78.500; per l’altro 800.000.
Hanno dibattuto interventi e rimedi, ma a nessuno dei due è venuto in mente di omogeneizzare il dato di partenza prima di elaborare i rimedi proposti. Proprio la gravità del problema dovrebbe imporre a tutti un autocontrollo sulla verifica dei dati utilizzati, con impegno di indicare la fonte da cui sono tratti; non foss’altro che per rispetto di chi ascolta o legge. Poi le teorie, i rimedi saranno quelli che si vuole, ma fondati su dati certi e verificabili. Non sono certo in grado di stabilire quanto dell’allarmismo di moda sia vero e fondato e quanto artefatto o fittizio; che la situazione sia grave lo si desume dall’intervento del Presidente; quanto lo sia e quali siano le soluzioni acconce a risolverla resta tutto da stabilire, alla condizione però che la cura si fondi su una diagnosi corretta. Questo è il punto focale: il terrore di proposte avventate, che dalla gravità della situazione in atto potrebbero trarre forza di penetrazione, finendo per aggravare il male. A due temi squisitamente veneti pare importante accennare: la sorte delle sette Province e il regime delle scuole materne «private » (leggersi per la stragrande maggioranza parrocchiali). Le Province: nella prima proposta si prevedeva la soppressione di due; poi una, Belluno, è stata graziata. Ora si propone la soppressione di tutte con legge costituzionale.
Ma che sappiano costoro di cosa stanno trattando? Passare dal Comune alla Regione in certe realtà come il Veneto diventa pura follia, se non si crea un’entità di media area che coordini le esigenze di territori omogenei. Pretendere di disciplinare il potere locale, per natura sua legato al localismo, con una legge costituzionale valevole per l’intera Penisola è fuori del tempo, una presa in giro. E poi che ci starebbe a fare l’autonomia legislativa delle Regioni? Ancor più risentimento provocano certe proposte di soluzione del problema delle scuole materne private. È semplicemente follia invocare una legge statale per omologare il «modello veneto», articolato su una fitta rete di asili parrocchiali. Ma di che federalismo blatera mai codesta gente, quando invoca poteri sempre nuovi e non esercita quelli che già ha? Solo un poeta del giure potrebbe comprendere la scuola materna nella materia istruzione, che spetta allo Stato. Si tratta di «assistenza» (alle famiglie) che la riforma costituzionale del 2001 ha assegnato alla Regione e fa semplicemente accapponare la pelle a sentir opporre come vigente e ostativo il Decreto n. 297 del 1994, che regola la posizione giuridica di tutte le «scuole di ogni ordine e grado». Allora funzionava così ed era legge; ma poi la riforma del 2001 ha cambiato tutto. Oggi l’esistenza di scuole materne statali è semplicemente un abuso, un residuato d’altri tempi e d’altri regimi. Ed è semplicemente lacrimevole che la Regione non se n’accorga e non s’attivi per prendersele, inserendole in una disciplina organica dell’intera sua materia, tentando addirittura di scaricare la sua gravissima responsabilità da omissione sulla solita «Roma ladrona», quando si tratta solo d’una Venezia addormentata.
Ivone Cacciavillani
08 settembre 2011

lunedì 5 settembre 2011

La fine della "felicità"





Dal corriere del veneto.




EDITORIALE

La fine della «felicità»


Tre manovre economiche in sei settimane, mentre le Borse bruciano senza pietà ricchezze e speranze. Risultato: tante incertezze ed una sola, spiacevole certezza, quella di sentirci più poveri. Anche se è ormai da tre anni che tante famiglie hanno iniziato a tirare la cinghia spesso rompendo il salvadanaio dei risparmi. Nel 2010, calcola l’Istat, la spesa media mensile delle famiglie venete è stata di 2876 euro; l’anno prima fu di 2857 euro. Quindi in un anno l’incremento è di circa lo 0,7 per cento, che però deve fare i conti con il serpente dell’inflazione - la tassa che non si vede - che è stata dell’ 1,5 per cento. Per i consumi insomma calma piatta, piattissima, una calma che tanto terrorizzava i naviganti sui velieri di un tempo e che oggi inquieta i commercianti, le imprese, gli economisti. Ed i consumatori, ovviamente. Poco consola sapere che Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto sono le regioni più ben messe quanto a consumi per cui, ad esempio, tra Veneto e Sicilia c’è una differenza di ben 1200 euro di spesa media mensile per famiglia, una cifra che suona beffarda nel centocinquantesimo dell’Unità (?) del Paese. Ma poco consola soprattutto perché i consumi nel 2008, l’anno in cui deflagrò la crisi, erano pari a 2975 euro al mese: ciò significa che in soli due anni le famiglie in Veneto hanno mediamente ridotto le spese di un centinaio di euro al mese.
Una sobrietà certamente non desiderata né gradita anche perché fa a pugni con quelle aspettative crescenti che tutti nutriamo nella nostra psicologia quasi come un diritto nei confronti del sistema capitalistico, pensando che domani andrà meglio di oggi e dopodomani ancor meglio. E gli acquisti e lo shopping sono notoriamente un segno ed una promessa che ci conferma nel senso di appartenenza al «sistema», ai suoi valori ed alle sue regole. Quarant’anni fa il filosofo francese Baudrillard scriveva «La società dei consumi» in cui non solo etichettava così le nostre società occidentali - centrate sul consumo, che ormai cominciava ad investire ogni spazio della vita psichica e materiale - ma dove sosteneva che dietro l’abbondanza dei beni si creavano nuove e generose mitologie chiamate progresso, tecnologia, sviluppo. Ma oggi, quando la contrazione dei consumi sembra tradire la promessa di felicità, quando le mitologie della modernità succitate entrano in affanno, chi garantirà la nostra soddisfazione e la nostra lealtà al «sistema»? E siamo ancora, allora, una «società dei consumi» o cos’altro? Nella migliore delle ipotesi quest’anno il Pil dovrebbe sfiorare un misero uno per cento e nonostante il buon andamento delle esportazioni (vendiamo all’estero quella «Dolce Vita», come Confindustria chiama il Made in Italy, che qui abbiamo perso di vista), gli occupati in Veneto sono nel primo trimestre settemila di meno rispetto all’analogo periodo del 2010. Ma soprattutto i tempi austeri che si aprono mettono in seria discussione la nostra fede nella religione dei consumi che ci aveva gioiosamente accompagnato fin qui.

Vittorio Filippi
30 agosto 2011