sabato 22 dicembre 2012

Leader e capetti che evaporano



Un ottimo articolo che ci mostra come un era sta terminando, non senza caos, ma, del resto, quali cambiamenti sono avvenuti senza distruggere la normalità pre-esistente?






Leader e capetti evaporano come la Seconda Repubblica


Da Veltroni alla coppia La Russa-Gasparri: chi si defila, chi resiste, chi si ricicla. Tra amicizie finite e rottamazione

MATTIA FELTRI
ROMA

Quell'asfissiante sentimento di dejà vu alla vista di Silvio Berlusconi che muove guerra al fisco draculesco e ai comunisti italocinesi, all'imposizione dei monologhi congelati di Roberto Benigni, alla prospettiva del milionesimo derby sputazzante fra destra e sinistra, ha nascosto soltanto un poco il magico scorcio dentro cui si consuma la fine di un’epoca. Non basta qualche tignoso resistente, di cui Rosy Bindi è la campionessa, a mascherare la decimazione di quel gruppo di capi e capetti che hanno agitato vent’anni (e qualcuno oltre) di Repubblica. Il primo ad abbandonare il ring è stato Walter Veltroni, con suprema eleganza oltretutto, e nonostante la perfidia umana avesse intravisto nel gesto l’opportunismo del fuoriclasse, che farà della scelta di oggi il punto di forza di domani. E che sa di trascinare con sé, e l’ha trascinato, il duellante di sempre: Massimo D’Alema. Già questo basterebbe per dire - nella piccolezza quotidiana del nostro lavoro - che nel Parlamento nulla più sarà come prima. Ma questa strana rivoluzione soltanto all’apparenza discosta, quasi dolce e silenziosa, si sta portando via alleanze, amicizie, soprattutto teste. Fa impressione la ruvidezza con cui tutti scansano Gianfranco Fini, aizzato contro Berlusconi, blandito, illuso e ora fatto da parte. I centristi dicono che la sua storia con la loro non c’entra niente; a sinistra non c’è nemmeno da dettagliare; a destra lo considerano Badoglio; lunedì sera persino lo sfiancato Marco Pannella ha risposto con repulsione all’invito a mangiare e bere del presidente della Camera: «Mi fai pena».

Ci sarà qualche anima pia disposta a garantire l’ultimo scranno a Fini (e i suoi cagnacci, Italo Bocchino e Fabio Granata)? Così come lo avrà Umberto Bossi, che rientrerà a Roma non più come geniale incendiario, ma nel ruolo del nonno simpatico e un po’ citrullo, che gira a farsi tastare il muscolo del braccio. La vedete questa Seconda repubblica, in fondo un trascinamento alla meno peggio della Prima, evaporare quasi ai margini della scena? Ve ne siete accorti che Emma Bonino, aspra e schietta come sempre, ha definito non automatica e pletorica la sua candidatura? Avete fatto caso che la vecchia zia Livia, intesa come Turco, molla tutto senza sprecare una sillaba né rabbiosa né malinconica? Avete riflettuto sulla ripulitura impietosa che rischia di fare l’Udc di Pierferdinando Casini - lui della resistenza dell’amianto - se intende mettersi con i centristi montiani e montezemoliani, i quali pretendono di andare alle elezioni senza certi ferrivecchi, quali sono stati catalogati per esempio Lorenzo Cesa ed Enzo Carra (e chissà, Rocco Buttiglione)?

Una mattoncino dopo l’altro, e qualche pietra angolare qua e là, la casamatta è tutta sbrecciata. Li vedi vagare, i soldatini. Ignazio La Russa si separa dal compagno (pardon) di una vita, Maurizio Gasparri. Il primo a imbarcarsi sulla scialuppa di Guido Crosetto e Giorgia Meloni, il secondo aggrappato alla bagnarola di Berlusconi. Sempre che ce la facciano a infilarsi di nuovo nel palazzo, quale rilievo avranno i vari Gianni Alemanno, Fabrizio Cicchitto, Altero Matteoli? Non ce ne eravamo accorti, ma hanno potuto più a destra le faide che a sinistra la rottamazione di Matteo Renzi. Sandro Bondi non ne vuole più sapere, e resterà a casa a studiare politologia. Beppe Pisanu concede interviste che concludono una lunga e prudente dissidenza annunciando che adesso basta, va da Casini a cercare asilo. Claudio Scajola incontra soltanto persone che si girano dall’altra parte; «nel Pdl ci stiamo io e Giorgia Meloni o Scajola e Dell’Utri», ha detto domenica Crosetto; è che a Scajola nemmeno Berlusconi apre più la porta. E, a proposito di Dell’Utri, l’ultima è parola sarà la sua, che ha detto di aver parlato con Silvio, e di aver aggiustato tutto, o quella pubblica di Silvio medesimo, per il quale ci dispiace tanto ma «non possiamo più permetterci di candidare Dell’Utri»?
Ecco, questi sono i tempi e queste sono le facce. Nemmeno ci si pensava, ma sono gli ultimi mesi per Giorgio La Malfa, che esordì a Montecitorio nel 1972 col Partito repubblicano (dunque più longevo di suo padre Ugo, parlamentare per trentatré anni), per Calogero Antonio Mannino detto Lillo, che esordì nel 1976 con la Democrazia cristiana, e per Carlo Vizzini, stesso anno d’esordio di Mannino, ma col Partito socialdemocratico. E, se questo è, le ultime righe se le merita il padre della Seconda repubblica, promotore con Mario Segni del referendum sull’uninominale secco e con Romano Prodi dell’Ulivo. Si tratta di Arturo Parisi, che saluta con la sua epoca.

lunedì 10 dicembre 2012

L'argine del Quirinale...


Un altro interessante articolo.


L'argine del Quirinale ridimensiona le pretese di un Pdl antigovernativo
Ma Berlusconi non riesce a ottenere l'election day a febbraio

Lo strappo è riuscito a metà. Silvio Berlusconi forse ha raggiunto il vantaggio di essere già in campagna elettorale, rispetto a partiti che per senso di responsabilità continuano ad appoggiare il governo di Mario Monti. Ma l'idea di aggiungere allo strappo la spallata contro la legislatura, per ottenere una giornata unica di elezioni anticipate a febbraio, si è dimostrata irrealizzabile. L'argine rappresentato dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sembra in grado di reggere. Le consultazioni che ha fatto ieri al Quirinale riconsegnano un centrodestra disponibile a garantire un'«ordinata conclusione». Significa approvazione della legge di Stabilità e forse qualche altro provvedimento, con un occhio ai due vertici europei in programma a metà dicembre e a metà febbraio del 2013: anche se in occasione del secondo le Camere saranno già state sciolte.

L'ipotesi sempre più probabile è che si voti per le politiche il 10 e 11 marzo. Forse negli stessi giorni ci saranno le elezioni regionali in Lombardia e Molise. Ma nel Lazio travolto dagli scandali della giunta di Renata Polverini le urne saranno aperte il 3 e 4 febbraio, come il Pdl temeva e ha cercato di evitare. Ma nonostante l'atteggiamento formalmente rispettoso nei confronti del presidente del Consiglio, ieri il segretario del Pdl, portavoce delle istanze berlusconiane, Angelino Alfano, ha confermato che per il Cavaliere l'esperienza del governo dei tecnici è chiusa. Non ci sarà ancora crisi, ma il maggior partito della maggioranza ha già un piede fuori. E dai toni ostili alla politica economica e al rapporto di Monti con l'Europa lascia indovinare una campagna elettorale non troppo dissimile da quella leghista.

D'altronde, l'ex ministro dell'Economia di Berlusconi, Giulio Tremonti, si è già alleato col Carroccio e ha cominciato ad attaccare Palazzo Chigi e, indirettamente, la Bce. Il ricongiungimento del defunto «asse del Nord» su posizioni di questo tenore non può essere escluso. Obiettivo: tentare una spericolata operazione di autoassoluzione per la sottovalutazione della crisi economico-finanziaria che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi nel novembre del 2011; e tentare di convincere l'opinione pubblica che «si stava meglio quando si stava peggio», scaricando su Monti tutte le responsabilità di problemi ereditati e non provocati; anzi, parzialmente risolti.

Con un filo di ironia, ieri il presidente del Consiglio è entrato alla Scala di Milano commentando: «Il Re Sole si è un po' allontanato da me». E le parole sono state viste come un'allusione allo smarcamento di Berlusconi. Ma la sensazione è che, con la sua accelerazione, il Cavaliere-Re Sole si sia allontanato da diverse realtà; e forse che sia accaduto anche il contrario. Sembra che nel Partito popolare europeo la prospettiva di un Pdl avviato a una campagna elettorale anti-Monti, e dunque anti-Ue, sia guardata con preoccupazione; e con domande crescenti sull'omogeneità dei partiti che ne fanno parte. Fra Cei e Vaticano, rimbalzano voci di un'irritazione quasi unanime per lo strappo contro il governo dei tecnici: bastava scorrere le pagine del quotidiano Avvenire di ieri, o ascoltare Tv2000 , l'emittente dei vescovi.

Il dito, però, non è puntato solo su Berlusconi ma anche su Alfano, che fino a pochi giorni fa aveva escluso ai propri interlocutori ecclesiastici la ricandidatura del Cavaliere e garantito lo svolgimento delle primarie. Il timore palpabile è che l'operazione si dimostri un elemento di divisione e alla fine di sconfitta per i moderati, delusi da tempo dal centrodestra e a caccia di nuovi interlocutori. Probabilmente è vero che chiudere la stagione berlusconiana senza un passaggio elettorale era impensabile. Ma farlo in queste condizioni non prepara una transizione indolore e una maturazione del sistema politico. Piuttosto, ingessa alleanze che sopravvivono a se stesse in entrambi gli schieramenti; e una leadership del centrodestra che si ripropone stancamente all'elettorato, zavorrata non solo dai processi ma soprattutto dai magri risultati ai quali ha tentato di

Massimo Franco

Il complesso della destra


Un bell'articolo del 25 novembre 2012 dal Corriere.



Il complesso della destra
Ciò che resta del Pdl

In Italia Destra e Sinistra sono entrambe in una condizione di incompletezza anche se in modo opposto. Mentre la Sinistra, infatti, gode di un forte e stabile insediamento socio-culturale, che però riesce molto difficilmente ad allargare fino a conseguire una propria maggioranza elettorale, la Destra, invece (considero Destra tutto ciò che non è Sinistra, e parzialmente dunque anche la vecchia Democrazia cristiana, pur con le specificità di cui appresso) la Destra, dicevo, può invece contare fisiologicamente su una maggioranza di voti, che però non riesce a trasformare in un autentico insediamento nel tessuto socio-culturale del Paese. L'Italia, insomma, è un Paese che per sua natura è intimamente conservatore e vota perlopiù a destra o per il centrodestra, ma ha una prevalente cultura politica organizzata e diffusa che è di sinistra. Nelle urne vince per solito la Destra (o il Centro che raccoglie gran parte di voti di destra, com'era la Dc, che aveva di certo anche un suo radicamento - cattolico per un verso e di sottogoverno per l'altro - ma non seppe aggiungerne alcuno specificamente suo e diverso), ma nella società civile quella che di gran lunga si fa più sentire è la voce della Sinistra.

Proprio quanto ho appena detto spiega due tratti specifici della vita politica repubblicana. Da un lato, il fatto che a cominciare da Togliatti la Sinistra, consapevole del carattere organicamente minoritario del proprio consenso elettorale, ha quasi sempre perseguito un accordo con una parte della non-Sinistra (in questo, a conti fatti, sono consistiti il «dialogo con i cattolici» e l'invenzione della «sinistra indipendente»); e dall'altro, invece, che la Destra, anche se elettoralmente fortissima, sembra esistere in un certo senso solo nelle urne, essendo in tal modo esposta al rischio di collassi politici e d'immagine improvvisi, capaci di portare in pratica alla sua dissoluzione. È precisamente ciò che in qualche modo assai complesso accadde alla Dc nel 1993-94, e che ora sta capitando in modo diretto e catastrofico al Pdl.

Il quale paga il prezzo del fatto che, nato come un partito di plastica, in tutto e per tutto artificiale, e poi inebriato dal successo elettorale, non si è mai curato di diventare qualcosa d'altro: qualcosa per l'appunto che avesse un retroterra effettivo di idee e di valori nella società italiana. Non se ne è mai curato, vuoi a causa dello strabordante, narcisistico senso di onnipotenza del suo capo, personalità certo fuori dal comune, ma in sostanza di scarsissima intelligenza delle cose politiche e di ancor più scarsa capacità di leadership (consistente ai suoi occhi in nulla più che nel principio: comando perché pago, o perché ho il potere di farlo). E vuoi per la prona accondiscendenza di tutti coloro che egli ha chiamato intorno a sé: chiamati, e rimastigli intorno, proprio perché capaci di accondiscendere sempre, e in forza di ciò, solo di ciò, di avere un ruolo importante.

Così il Pdl è stato in grado, sì, tesaurizzando il sentimento antisinistra del Paese, di vincere due o tre elezioni. Ma nel momento in cui limiti e pochezze di Berlusconi sono emersi in pieno (già tre anni fa), e lo stesso Berlusconi si è trovato rapidamente messo all'angolo, allora sotto i piedi del vertice, ostinatosi fino all'ultimo a non vedere o a far finta di nulla, alla fine si è aperto il baratro. E tutti i nodi sono venuti al pettine tutti insieme. Il vertice del Pdl oggi paga per le mille cose promesse, annunciate e non fatte, per il malgoverno e per il sottogoverno; paga per una politica estera priva di qualunque autorevolezza, biliosa e inconcludente; paga per lo straordinario numero di gaglioffi di ogni calibro che in questi anni hanno scelto il Pdl come proprio rifugio e che non poche volte lo stesso vertice ha accolto al suo interno senza che nessuno protestasse; paga per gruppi parlamentari scialbissimi, gonfi di signore, di avvocati di varia risma e di manager pescati dagli addetti di Publitalia non si sa come; e non si finirebbe più.

Ma paga soprattutto perché si è mostrato incapace (proprio il partito del Grande Comunicatore!) di parlare al Paese. Infatti, presentatosi originariamente come espressione massima della società civile, il Pdl è diventato in breve quanto di più «politicistico» e autoreferenziale potesse immaginarsi, presente e attivo quasi esclusivamente negli spazi istituzionali. Ma altrove del tutto assente, a dispetto di tanti suoi elettori in buona fede che oggi non meritano certo lo spettacolo a cui sono costretti ad assistere. In tal modo il Pdl non ha fatto altro che confermare l'antica difficoltà della Destra italiana postfascista ad agitare nel Paese temi e valori propri, a rappresentarli e a diffonderli con la propria azione politica, sì da costruirsi grazie ad essi - in positivo, non più solo per semplice contrapposizione alla Sinistra - un proprio effettivo retroterra socio-culturale. Quei valori che per l'appunto avrebbero dovuto essere i suoi - il merito, la competizione, la rottura delle barriere corporative, il senso e l'autorità dello Stato, la sana amministrazione delle finanze e dei conti pubblici, la difesa della legalità, la cura per l'identità e per il passato nazionali, per la serietà degli studi - ma che invece essa ha finito per disperdere al vento o per regalare quasi tutti alla sinistra. Così da trovarsi oggi, tra una rissa interna e l'altra, ormai avviata verso una meritata irrilevanza nel più scettico disinteresse degli italiani.

Ps: per anni, ogni qualvolta mi è capitato di muovere una qualunque critica al Pdl mi è arrivata puntuale una sesquipedale e sdegnata messa a punto-smentita da parte dei coordinatori del partito, Bondi, La Russa e Verdini. Immagino che questa volta, però, decidano di risparmiarcela: a me e ai lettori del Corriere .

Ernesto Galli della Loggia

domenica 4 novembre 2012

Il Paese in ostaggio


Un ottimo editoriale di S. Romano. Da qui.


Il Paese in ostaggio
Quando abbiamo appreso che Silvio Berlusconi avrebbe fatto un passo indietro e lasciato ad altri la guida del suo partito, ho pensato che nessuno dei suoi futuri biografi, indipendentemente dal loro giudizio politico, avrebbe potuto ignorare la sua capacità di entrare e uscire al momento giusto. Il suo messaggio televisivo del 26 gennaio 1994 ha riempito un vuoto e suscitato molte speranze in una parte dei suoi connazionali. Il suo «passo indietro» di qualche giorno fa sembrava avere tolto di mezzo una ipoteca e un alibi. Il suo partito avrebbe smesso di aspettare, inerte, la decisione del padre-padrone e sarebbe diventato infine «maggiorenne», vale a dire costretto a scegliere un leader, un programma, una strategia elettorale. I partiti dell'opposizione avrebbero dovuto smetterla di fare della lotta contro Berlusconi una delle principali ragioni della loro esistenza. Avrebbero dovuto chiedere voti con un programma credibile e spiegare al Paese con quali alleati lo avrebbero realizzato. Il dibattito elettorale sarebbe stato meno fazioso, il confronto fra diversi programmi più utile al Paese e al suo futuro, la risposta dell'elettore meno condizionata dall'ingombrante presenza di un uomo che ha molto contribuito a dividere l'Italia in due opposte tifoserie. E i giornali non sarebbero stati costretti a riempire le loro pagine di accuse reciproche su temi che non hanno alcun rapporto con la realtà economica e sociale del Paese.

Con il suo intervento di ieri Berlusconi rende questa prospettiva molto più difficile. L'ex presidente del Consiglio ha confermato il suo messaggio precedente, ma lo ha contraddetto con una perorazione per se stesso che è parsa in molti momenti un regolamento di conti. Ha rivendicato i meriti della politica finanziaria del suo governo dopo lo scoppio della crisi. Ha accusato Germania e Francia, tra le righe, di avere complottato contro la sua persona. Ha implicitamente rimproverato al governo Monti di non avere mantenuto un impegno preso al momento della sua formazione (la riforma della Costituzione) e, più esplicitamente, di avere fatto la politica imposta da Berlino. Ha prospettato soluzioni demagogiche sulla fiscalità e sulla casa che sembrano essere la versione forbita delle filippiche di Beppe Grillo. Ha messo in discussione l'obiettività della Corte costituzionale e le funzioni della presidenza della Repubblica. Ha dipinto un quadro troppo ottimistico del Paese nel 2011 e troppo pessimistico nel 2012. Ha trasformato una questione personale in una questione nazionale e ha presentato il proprio caso come la prova della ingovernabilità del Paese. Ha dimostrato di avere un ego gigantesco, impermeabile a qualsiasi altra considerazione e preoccupazione. Si è chiesto ad esempio quale sarà domani la reazione dei mercati e degli investitori quando giungeranno alla conclusione che il leader del partito di maggioranza (così viene ancora percepito) ha sconfessato il governo dei tecnici, dichiarato guerra alle istituzioni e delineato un programma che riporterebbe il Paese alle condizioni del novembre 2011? Resta da capire come Berlusconi, dopo avere confermato il suo «passo indietro», intenda agire nei prossimi mesi per dare un seguito pratico alle sue analisi e battersi, come ha promesso, per la riforma della giustizia. Nessuno può negargli il diritto di fare le sue battaglie. Ma il suo partito, se desidera essere una forza politica nazionale, deve prendere le distanze dal fondatore. Se riuscirà a sbarazzarsi del «padre» potrà aspirare alla conquista di una parte del voto moderato. Se continuerà a essere il partito di Berlusconi, verrà inevitabilmente considerato uno strumento del suo conflitto d'interessi.

Sergio Romano

venerdì 5 ottobre 2012

Pat(tumiera)



A stasera.

Cliccate per ingrandire.

lunedì 24 settembre 2012

L'ingordigia dei mediocri


Gian Antonio Stella ci regala questo punto di vista, dal Corriere del 21/09.


L'ingordigia dei mediocri
Chi la eccita, l'antipolitica? Questa è la domanda che devono porsi quanti portano la responsabilità di avere selezionato una classe dirigente nazionale, regionale e locale che magari è fatta anche di tante persone perbene ma certo trabocca di figuri impresentabili. Figuri troppo spesso selezionati proprio per questo: perché ambiziosi, mediocri, ingordi, disposti a tutto.
Lo disse anni fa Giuliano Ferrara in un dibattito con Piercamillo Davigo: «Devi essere ricattabile, per fare politica. Devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti». Una diagnosi tecnica, non «moralista». Ma dura. E destinata a trovare giorno dopo giorno, purtroppo, nuove conferme.
Ci è stato spiegato, per anni, che i controlli erano inutili, che facevano perdere tempo, che ostacolavano l'efficienza e la rapidità delle scelte. Ci è stato detto che bastavano i controlli «dopo». Magari a campione. Magari a sorteggio. Magari con un progressivo svuotamento delle pene perché ci sarebbe stata comunque «la sanzione politica, morale, elettorale». I risultati sono lì, sotto gli occhi di tutti. E ricordare ai cittadini che devono «avere fiducia nella politica» è solo uno stanco esercizio retorico. Solo la politica può salvare la politica. Cambiando tutto, però.
Carlo Taormina, che è stato deputato e sottosegretario (sia pure part time col mestiere di avvocato) dice che la Regione Lazio «è un porcile». Alla larga dal qualunquismo. È vero però che mentre nel cuore dello Stato, da anni sotto i riflettori delle polemiche sui costi della politica, qualcosa ha cominciato lentamente a cambiare, in tante Regioni e non solo nel Lazio (troppo comodo, scaricare tutto lì...) troppa gente ha pensato di essere al riparo dalle ondate, fluttuanti, d'indignazione popolare. Come se tutto, crisi o non crisi, potesse continuare come prima.
I cittadini sono sconcertati dai casi trasversali di malaffare? Ogni indagato resta sempre inchiodato lì, senza mollare l'osso mai. Si chiedono perché spendere 36 milioni di euro per l'aeroporto di Aosta? I lavori vanno avanti, anche se non decolla un volo e forse mai decollerà. Non capiscono perché il Molise abbia lo sproposito di 30 deputati regionali divisi in 17 gruppi di cui 10 monogruppi? Dopo le elezioni potrebbe averne 32. Sono furibondi con le dinastie politiche ereditarie tipo quella di Bossi? Sparito il Trota e messo in ombra il figlio di Di Pietro, entra «Toti» Lombardo, candidato alle prossime regionali siciliane dal papà Raffaele che l'altra volta aveva piazzato il fratello.
Per non dire della Calabria. Dove, mentre i disoccupati si arrampicano sui tralicci, sono stati appena spesi 140 mila euro per un libretto dal titolo «Il senso delle scelte compiute» che osanna in 65 foto e 125 pagine estasiate il presidente del consiglio regionale Franco Talarico. Il quale ha in dote spese di rappresentanza per 700 mila euro, sei volte più dell'intera assemblea dell'Emilia Romagna, che ha il doppio di abitanti e il quadruplo del Pil.
Per questo sono in tanti ad assistere con apprensione allo scandalo che squassa la Regione Lazio. Perché, sotto le sue macerie di centurioni, Batman, bulli e balli mascherati con scrofe e maiali, potrebbero restare sepolte anche le stizzite rivendicazioni di autonomia di tante Regioni amministrate in questi anni in modo sconcertante. Che potrebbero, finalmente, essere chiamate a rispondere dei conti.
GIAN ANTONIO STELLA

venerdì 7 settembre 2012

Il paesaggio preso a schiaffi



Ecco un notevole articolo dal Corriere.
Gli orrori paesaggistici e l'incuria, il menefreghismo.
Quello che combattiamo. Noi, gli altri non si sa.



Trascorrere qualche giorno in Calabria - dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola - significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.
Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro - questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana - per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e - perché no? - una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque).
D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace - fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti - se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.
Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.
Ernesto Galli della Loggia
27 agosto 2012 | 13:14