domenica 13 novembre 2011

12 Novembre: Seconda Festa della Liberazione



Ci sono cose che vanno festeggiate, a prescindere dalle idee di destra o sinistra.

giovedì 10 novembre 2011

17 anni di...


Un bell'articolo dal Corriere Vicentino. Buona lettura.

IL GOVERNO, IL PREMIER
L'ascesa, il crepuscolo: 
i 17 anni del Cavaliere
In pochi mesi sbaragliò la sinistra con il «kit del candidato» e le selezioni della Publitalia di Marcello Dell'Utri. Il capolavoro il patto con Bossi

Berlusconi IV, tre anni di legisltatura

Nel '94, nel video della sua epica «discesa in campo», Berlusconi magnificava l'Italia come «il Paese che amo». Diciassette anni dopo, captato in un'intercettazione telefonica, lo stesso Berlusconi non seppe frenare il rassegnato disgusto per l'Italia «Paese di m....». In questo capovolgimento emotivo si racchiude il senso di un'avventura politica che prometteva un nuovo «miracolo» e si è inabissato in una grande disillusione. L'ottimismo degli esordi, che contagiò e stregò molti italiani orfani della Prima Repubblica e smaniosi di un «nuovo inizio», ha la sua antitesi in un tramonto cupo e malinconico. Finisce, nel crepuscolo del berlusconismo, un'epoca della storia, della politica, della psicologia collettiva, dell'immaginario dell'Italia repubblicana. Si chiude la Seconda Repubblica, creata, plasmata, dominata dalla figura di Silvio Berlusconi.

Anzi, Berlusconi è stato, e continua a essere la Seconda Repubblica. Dopo la tempesta di Tangentopoli, i giornalisti abituati ai ritmi lenti e alle liturgie della Prima Repubblica non seppero far altro che canzonare il magnate televisivo che fantasticava di un «rassemblement» dei moderati e lo raffigurarono con il fez dei fascisti quando, all'inaugurazione di un ipermercato, il re della Tv commerciale disse che, se fosse stato romano, tra Fini e Rutelli avrebbe scelto Fini. Lo snobbavano, ma in due sole mosse Berlusconi aveva creato il bipolarismo italiano: il polo dei suoi devoti, e quello dei suoi nemici. Stava celebrando la «religione del maggioritario» in cui il leader incontrastato trascinava il suo popolo affamato di figure carismatiche, l'«Unto» che nel favore popolare trovava la sua consacrazione. In pochi mesi sbaragliò la sinistra che, nella dissoluzione dei vecchi partiti di governo, pensava di avere la vittoria in mano con la «gioiosa macchina da guerra» capeggiata da Achille Occhetto. Cominciò lì il grande trauma da cui la sinistra non si sarebbe più ripresa.

Ascesa e crepuscolo: i 17 anni del Cavaliere
                               
La gioiosa macchina da guerra non prese nemmeno un voto in più di quelli incassati dalle formazioni che avevano ereditato le insegne del vecchio Pci più qualche frangia di sinistra multicolore. Non se ne capacitarono più. Cominciò la caccia al colpevole. E cominciò pure il vaniloquio contro il destino cinico e baro che prendeva a bersaglio qualunque cosa o personaggio potesse suggerire il senso di un sortilegio malvagio, più che di una normale elezione perduta: la calza sull'obiettivo della telecamera con cui Berlusconi avrebbe reso più soffice e seducente il suo messaggio video; la spilla appuntata sul bavero del doppiopetto berlusconiano che, secondo i più temerari esegeti della videocrazia, avrebbe riflesso sugli occhi degli sprovveduti telespettatori chissà quali bagliori subliminali. E poi addirittura l'ipnosi; Raimondo Vianello; Ambra; il karaoke; gli spot della pubblicità, e così via. La sinistra, che aveva sin lì coltivato solide radici popolari, cominciò a diffidare del popolo, della gente non inquadrata, degli elettori a suo insindacabile ed elitario parere imbottiti di stupidaggini pubblicitarie e schiavi della televisione.

Qualcuno riuscì persino a maledire il suffragio universale: in fondo, addirittura si disse e si scrisse, il popolo furente e indisciplinato aveva nella storia già scelto Barabba e sacrificato Gesù Cristo. È vero che nessuno ebbe il coraggio di paragonarsi esplicitamente a Gesù Cristo. Ma il «ladrone» era quello lì, l'arcitaliano che con un «rassemblement» molto simile a un'accozzaglia di avventurieri, con l'espediente furbo della doppia alleanza con il Msi (non ancora An) al Centrosud e con la Lega al Nord, con uno schieramento che non poteva vantare alcun legame con i partiti storici che avevano stilato la Costituzione italiana, aveva avuto l'ardire di traslocare Cologno Monzese a Palazzo Chigi. Con tutto un contorno di azzimati sconosciuti armati di un grottesco «kit del candidato» che la Roma politica e giornalistica accolse come i marziani, tutti con il blazer, tutti cloni del Capo, tutti obbedienti soldatini pescati nelle selezioni supervisionate dalla Publitalia di Marcello Dell'Utri. Non era la «rivoluzione liberale», promessa e mai arrivata, ma una rivoluzione antropologica sì: l'azienda che si fa potere politico, senza la mediazione dei partiti. «Colpo grosso», dissero e scrissero. Ma il fatto più grosso è che a sinistra non riuscirono a capire dove avessero sbagliato. E non ci riuscirono, per la verità, per tutti i diciassette anni successivi, fino a quando Berlusconi, immerso nei suoi errori, circondato da nugoli di cortigiani e cortigiane che gli hanno fatto perdere il senso della realtà, è sprofondato sì, ma solo per suo proprio demerito.

Il Berlusconi IV
                               
Hanno sperato per anni sulla spallata giudiziaria, sempre contando sull'aiutino extrapolitico per cavarsi fuori dai guai. In realtà avrebbero pur trovato per ben due volte, nel 1996 e nel 2006, il messia buono, il leader in grado di battere Berlusconi alle elezioni, di incarnarne l'antitesi caratteriale: il professore contro il tycoon, l'uomo del rigore contro l'uomo dei sogni, la sobrietà contro la sfrenatezza, la bicicletta contro le ville sfarzose, i mausolei funebri emblema della megalomania, la volgarità della ricchezza ostentata. Avrebbero pur trovato Romano Prodi, ma per due volte l'hanno impallinato. Poi hanno fatto il Pd con la «vocazione maggioritaria» e hanno passato il tempo restante a impallinare il leader che di quella vocazione si era fatto interprete: Walter Veltroni. In fondo, a conti fatti, la sinistra ha governato sette anni su diciassette di Seconda Repubblica (più un annetto in campo neutro con il governo Dini del '95). Ma gli storici del futuro identificheranno la Seconda Repubblica esclusivamente con l'uomo che l'ha governata per gli altri nove. E che, anche quando stava all'opposizione, governava pur sempre le fantasie politiche degli italiani, invadeva tutto il campo della visione e dell'immaginazione con le sue barzellette, i suoi «mi consenta», i suoi «cribbio», le sue cravatte a pois, i suoi Apicella, le sue «navi della libertà», le sue gaffes internazionali con cucù, corna e «abbronzati», le sue bandane, i suoi travestimenti ogni volta con un cappello diverso in testa: il presidente operaio, il presidente ferroviere, il presidente in pelliccia nella gelida dacia di Putin. Basta dare un'occhiata agli scaffali delle librerie, per accorgersi che il fenomeno Berlusconi ha ispirato tonnellate di libri: sul corpo di Berlusconi, sulle nequizie di Berlusconi, sul lessico di Berlusconi, sulle inchieste che coinvolgono Berlusconi. A tutti gli altri solo le briciole.

Il berlusconismo ha sfatato, nei lunghi anni del suo predominio, molti luoghi comuni, alcuni dei quali generosamente profusi dal suo stesso inventore e artefice. Sfatato il mito del Berlusconi decisionista. In diciassette anni non ha dato corso nemmeno all'inizio di una riduzione fiscale promessa con l'accattivante slogan «meno tasse per tutti». Non ha liberalizzato l'economia e anzi, con il caso Alitalia, si è dimostrato anche discretamente statalista e dirigista. Il popolo delle partite Iva, il ceto medio produttivo, la piccola impresa, gli outsider che lo hanno osannato a Vicenza quando nel 2006 Berlusconi sfoderò il meglio del suo repertorio di comunicatore politico, tutti costoro, il blocco sociale del berlusconismo (e del leghismo), hanno dovuto ricredersi, a loro spese: l'Italia è sempre ingessata, asfissiata dalla burocrazia, massacrata da un Fisco esoso. Un'altra leggenda messa a punto dall'ufficio pubbliche relazioni del berlusconismo è che Berlusconi sia un perfetto eroe della tolleranza, un «editore liberale», un capo bonario che ha una parola buona per tutti. È noto invece quanto Berlusconi sia stato ossessionato da Santoro e Biagi senza mai frenare un desiderio compulsivo di mettere a tacere chi, dal suo regno televisivo, faceva opera di irriverente disturbo. E quanto a tolleranza, il modo sbrigativo con cui si è liberato di Fini, nel coro ossequioso degli aennini ex finiani, dimostra che per Berlusconi troppo spesso il dissenso coincide con il «sabotaggio», il dubbio con il «remare contro», il «no» come una perversa insubordinazione. Basta vedere quanti sono i desaparecidos del berlusconismo nascente: una schiera infinita, sostituita da yes men e incensatori, miracolati e clienti, faccendieri e ragazze che hanno trovato un modo tutto loro per fare carriera nella politica, nello spettacolo e nella politica-spettacolo.

Ma l'altro mito da sfatare, stavolta costruito dai suoi avversari supponenti e sussiegosi, è che Berlusconi sia stato un incapace della manovra politica, bravo nei comizi, ma deficitario nella tattica, imbattibile nella propaganda di se stesso, ma sperduto nei palazzi del potere e dell'establishment. E invece il suo capolavoro politico Berlusconi ebbe a realizzarlo proprio nel quinquennio in cui è all'opposizione, tra il '96 e il 2000. Sembrava finito. Le inchieste giudiziarie, con Stefania Ariosto nel ruolo di nuova vestale della democrazia violata, sembravano averlo messo ko. Il centrosinistra mieteva vittorie su vittorie nelle elezioni dei grandi comuni. Prodi avviava il Paese al grande azzardo dell'euro. E invece Berlusconi rovesciò il piatto, anche con la complicità di un Ulivo autolesionista, votato all'autodistruzione. Riconquistò un ruolo di protagonista nella Bicamerale. Fece del caos sconclusionato di Forza Italia il pilastro italiano del Ppe. Divenne determinante, rimettendosi nel gioco politico dal quale era stato estromesso, per l'elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. E soprattutto ingoiò tutti gli insulti di Bossi, mise da parte l'amor proprio di chi era stato indicato come un criminale dalla Lega del ribaltone, e realizzò il capolavoro che avrebbe stabilizzato la sua egemonia nella scena politica della Seconda Repubblica. Con l'«amico» Bossi che non lo chiamava più «Berluskazz, Berluskaiser», Berlusconi espugnò la rossa Bologna, stravinse le elezioni Regionali del 2000 costringendo D'Alema (il superpolitico D'Alema, l'erede di Togliatti) alla resa e si preparò al trionfo del 2001. Con la Lega Berlusconi capì che poteva contare su una maggioranza stabile nel tempo. Nella legislatura tra il 2001 e il 2006 fece di tutto per perdere le elezioni successive: ma alla fine solo una manciata di voti alla Camera lo divise dal vincitore Prodi, il leader del centrosinistra che tutti i sondaggi tranne uno davano in testa di almeno tre-quattro punti.

Il destino ha voluto che proprio sul rapporto con la Lega, quello riconquistato a furia di cene del lunedì e di ripetuti omaggi all'«amico Umberto», Berlusconi vedrà alla fine lo scoglio su cui si infrangeranno oltre diciassette anni di protagonismo assoluto nella Seconda Repubblica. Il logoramento dell'asse del Nord, sempre più intaccato sotto traccia anche se mediaticamente in secondo piano rispetto alla sindrome del bunga bunga che ha scandito l'avvitarsi berlusconiano in una fortezza oramai sempre più vulnerabile, è il vero inizio di una sconfitta che rompe uno schema fortissimo e collaudato negli anni. Nonostante il pasticcio della «nipote di Mubarak», nonostante lo sconcerto che ha trascinato lo stesso elettorato del centrodestra nella disillusione e nello sconforto alla vista del sistema delle «olgettine», la cassaforte del rapporto con la Lega è stato davvero l'ultimo bastione prima della conclusione di un ciclo politico.

 
Gli ultimi anni del berlusconismo si sono specchiati anche nel volto sempre più cupo e iracondo del suo artefice massimo. Scomparsi i sorrisi, svanito il contatto magico con la folla, rovesciata la convinzione che tutto ciò che veniva toccato dalla mano di Berlusconi si sarebbe trasformato in ricchezza, successo, voti, consenso, simpatia, la stessa espressione facciale del Capo indiscusso del centrodestra è diventata progressivamente il simbolo di una storia che stava giungendo inesorabilmente al crepuscolo. Nessuno, tra i suoi sodali più stretti, aveva il coraggio di mettere il leader di fronte alla nuda verità: che il rapporto con l'Italia che lo aveva amato si stava sfaldando, che il sistema delle «cene eleganti» stava deteriorando irreversibilmente l'immagine del leader nel suo stesso elettorato, che l'immagine del leader accanto a Scilipoti stava diventando un terribile boomerang. Si è imposta invece l'ossessione del grande complotto, l'angoscia che vuole snidare da ogni angolo in penombra traditori, ingrati, disertori. Il Berlusconi sorridente e sicuro di sé della discesa in campo si è trasformato nel Berlusconi assediato nel suo bunker a cercare di rintuzzare colpo su colpo. Una parabola triste per una storia che ha conosciuto anche momenti di grandezza. Anche se la grandezza maggiore è quella di chi sa cogliere il momento dell'uscita un attimo prima della caduta rovinosa.

sabato 22 ottobre 2011

Congratulazioni Orfeo!



Con estremo piacere, riportiamo il discorso della premiazione del nostro Orfeo, ringraziando per la gentile concessione il Dott. Visonà, rappresentante del Laboratorio Brendola.

Congratulazioni Orfeo! :-)

Buonasera e Benvenuti a questa serata del premio laboratorio Brendola.
Ringrazio tutti i presenti e gli amici della bottega teatrale di Bruno Scorsone che ci ha intrattenuto con il suo magnifico spettacolo. L’associazione laboratorio Brendola non ha titoli speciali per emettere giudizi, ma da sempre ha sostenuto che valorizzare le persone di una comunità è un compito fondamentale ed in assenza di iniziative di tipo istituzionale si è impegnata a svolgere questo ruolo in modo modesto, ma significativo.

E’ un rito che si ripete da 15 anni sempre in questa sede e in questo periodo. Continuiamo a sostenere che valga la pena  premiare quanti si impegnano per il nostro paese. Crediamo che tante persone hanno enormi potenzialità ed energie da spendere a vantaggio di tutti e dell’intera comunità. Siamo impegnati a difendere l’idea che riconoscendo le qualità degli altri possiamo migliorare, continuare a crescere come persone e come cittadini. Siamo rimasti ancorati all’idea che è meglio benedire degli altri, valorizzare le buone qualità delle  persone e mettere in evidenza gli aspetti migliori di un paese piuttosto che maledire delle  incapacità e dei limiti esistenti.

 E’ questo un anno difficile per tanti motivi, in particolare per la crisi economica che stiamo vivendo e che ci tocca tutti. Un periodo che mette in evidenza oltre le difficoltà economiche anche le profonde criticità culturali ed etiche. La globalizzazione, i mercati, la finanza viaggiano sopra le nostre teste e noi abbiamo rinunciato ad incidere per il nostro piccolo sugli avvenimenti della storia. Una rinuncia a tanti principi e valori  che dovrebbero guidare la nostra vita quotidiana, ma che sembrano non far parte di tanta classe politica e dirigente di questa nazione. Abbiamo ridotto il mondo ad economia dimenticando tutto il resto: l’amore, l’altruismo, la generosità, la solidarietà, l’onestà,il senso di responsabilità, la coerenza, l’affidabilità, l’umiltà, il valore della parola data, il rispetto del diverso, il senso intergenerazionale, la caducità della vita e l’inevitabilità della morte. Un anno difficile che sembra premiare l’individualismo di quanti si sono dedicati esclusivamente ai propri interessi, all’idea che ci si possa salvare da soli in barba agli altri, all’idea che il denaro possa risolvere ogni problema, all’idea che qualche povero in più non rovina il paese.

Un anno difficile per la miopia di quanti avrebbero dovuto capire in anticipo certi fenomeni e hanno guardato altrove cercando di conservare privilegi e vantaggi senza progettare e pensare in grande e per tutti. Un anno difficile perché tanti di noi pensano che il mondo possa cambiare per opera dei condottieri dimenticando che il mondo cambia solo se ognuno di noi cambia, si converte, si modifica. Siamo solo dei granellini di sabbia presi da soli, ma insieme possiamo fare un deserto, siamo solo delle minuscole stelle, ma insieme possiamo formare una galassia.

In questa situazione critica stasera abbiamo la fortuna di avere con noi Orfeo Rigon, persona unica e squisita, che proprio niente ha da spartire con quanto si è detto di certe criticità. E’ un piacere unico poter annoverare tra i nostri cittadini una persona come Orfeo, esempio di  integrità morale, culturale, di grande disponibilità e generosità, di enorme pazienza e costanza nel perseguire il benessere personale e collettivo. La sua storia di vita lo certifica ed è visibile a tutti. Si è confrontato con le difficoltà della vita fin da piccolo lottando per conquistare una autonomia motoria ritenuta quasi impossibile, superando con tenacia e determinazione le sue limitazioni accettando con serenità la dura battaglia quotidiana.

E’ facile fare dichiarazioni, ma non è altrettanto facile trasformare dei limiti in opportunità di sviluppo di sensibilità, altruismo, conoscenza, cultura ed impegno per la comunità. Ricordo che oltre aver accudito e sostenuto il mondo del volontariato si è speso anche politicamente facendo il sindaco. Sicuramente uno dei migliori che Brendola può annoverare nella sua storia, riconoscimento certificato dai suoi sostenitori, ma anche da quanti non militavano nel suo gruppo, dai dipendenti comunali e da quanti hanno avuto problemi da risolvere durante il suo mandato.
Persona equilibrata, modesta, tollerante, disponibile non poteva non dedicarsi anche al mondo dell’handicap. Da anni ed anni è presente in Cooperativa sociale ’81, in cooperativa Piano Infinito ed attualmente è anche presidente della Fondazione Paolino Massignan dopo di Noi.

Ha lavorato in tutti questi anni a tessere relazioni, intese, collaborazioni, smussando difficoltà, incomprensioni, rimuovendo ostacoli ritenuti insuperabili, coinvolgendo con pazienza e tenacia tutto il mondo dell’handicap. Formalmente è in pensione in pratica lavora a tempo pieno in Fondazione e nelle cooperative.  E’ difficile spiegare la sua bontà d’animo, la profondità di pensiero, la saggezza che sparge attorno perché considera tutto questo come aspetti normali della vita. Forse riesco a spiegarmi meglio dicendo che vicino a Lui ti senti bene compreso, rispettato, accettato, riconosciuto e stimato.

Per provare queste sensazioni è necessario stare vicino a una persona speciale come Lui che di tutte queste qualità è impregnata profondamente. Questa serata vogliamo dedicarla a Lui come  un riconoscimento del notevole apporto che ha dato a migliorare questo paese  attraverso la sua vasta rete di contatti lavorativi, politici, sociali e relazionali in tutta la provincia. Si, lui ha portato in giro per il mondo un’immagine di Brendola come luogo di eccellenza, come comunità in grado di spendersi per il bene di tutti, come paese in grado di formare uomini veri.

Certamente la sua presenza ha migliorato il livello di cultura, di umanità e di solidarietà di questo paese e di questo lo ringraziamo sinceramente consegnandogli il premio.

mercoledì 19 ottobre 2011

Basta!


Un interessante articolo di ieri, 18 ottobre, da qui.

I Comuni che dicono basta così

Piani regolatori a crescita zero

Stop a permessi per costruzioni su terreno vergine o varianti per rendere edificabile un terreno agricolo




MILANO - Un nuovo quartiere di villette che porta in dote al Comune una strada e due rotonde. Oppure un centro commerciale che frutterà una pista ciclabile, una piscina, magari un asilo. Come si comportano i Comuni, quando non hanno abbastanza soldi e hanno bisogno di opere pubbliche? Quasi sempre cercano di ottenerli con gli oneri di urbanizzazione. In Lombardia, invece, c'è chi ha fatto una scelta controcorrente. Sono i Comuni di Cassinetta di Lugagnano, Solza, Pregnana Milanese, Ozzero e Ronco Briantino. Questi cinque centri, tutti sotto i 10 mila abitanti, hanno adottato un piano regolatore «a crescita zero». Ovvero, un piano che non concede più costruzioni su terreno vergine, né permette di fare varianti per rendere un terreno agricolo edificabile. Si può costruire solo sull'esistente o sulle aree dismesse e si fanno eccezioni solo per le aziende situate nella zona industriale e che abbiano necessità di espandersi, perché questo giova al mercato del lavoro. STOP ALLE COSTRUZIONI – Pioniere in questo campo è stato il Comune di Cassinetta di Lugagnano, piccolo centro di 1.800 abitanti sul Naviglio Grande, nel Parco del Ticino. Qui il piano di governo del territorio (Pgt) «a crescita zero» è in vigore dal 2007. «Volevamo svincolare il futuro del nostro territorio dalle esigenze di bilancio. In Italia la pianificazione urbanistica è pressoché assente, e dove non vi sono regole a garanzia dell’interesse collettivo, prevalgono gli interessi di pochi, di chi domina il mercato», spiega il sindaco e blogger Domenico Finiguerra, che in questi anni si è dedicato anche alla fondazione di un movimento nazionale contro il consumo di territorio. «È un meccanismo deleterio, che permette di finanziare i servizi ai cittadini con l’edilizia. Si tratta però di entrate una tantum e siccome il territorio non è infinito, prima o poi termineranno».

RISPARMIO, GARE E MATRIMONI – Ma come si fa a tenere in piedi un bilancio rinunciando a una fonte di introito così importante? Con rinunce a ciò che non è indispensabile (niente staff per il sindaco, niente auto comunali, niente eventi se non sono sponsorizzati) e poi dedicando molto tempo alla stesura di progetti per la partecipazione a bandi di finanziamento pubblici e privati. «Solo per la nuova scuola dell’infanzia abbiamo acceso un mutuo da un milione di euro, coperto con l'aumento di un punto dell’Ici sulle seconde case, sui capannoni e sulle attività produttive. Una sorta di tassa di scopo», spiega Finiguerra. La fonte di introito più originale a Cassinetta è però quella dei matrimoni: in Comune ci si può sposare anche a mezzanotte, e sindaco e consiglieri vanno a celebrare le nozze ovunque gli sposi vogliano: il paese è pieno di ville settecentesche sul Naviglio che possono essere affittate per il ricevimento. Ovviamente, le tariffe sono elevate, ma questo ha portato nelle casse comunali quasi 20 mila euro l'anno scorso.

LE CRITICHE E IL PARERE DEI COSTRUTTORI – «Un piano simile può tenere in piedi un paesello, ma non può funzionare in una città». È un piano «bello nell'idea, ma irrealizzabile». «È solo una moda che passerà». Queste le critiche più frequenti che i Comuni si sono trovati ad affrontare. Anche la Provincia di Torino, tuttavia, ha recentemente adottato un piano territoriale di coordinamento provinciale (l'equivalente del Pgt, ma a livello di provincia) che cerca di limitare il consumo di suolo e norme simili sono la normalità in Germania. «Se lo fa Monaco di Baviera non vedo perché non può riuscirci una città italiana», ribatte Finiguerra. «È un tentativo di frenare la conurbazione, che invece nei dintorni di Milano sta diventando un fenomeno inarrestabile». D'altronde, sulla necessità di frenare la conurbazione è intervenuto più volte anche il presidente dell'Ance (Associazione nazionale costruttori edili) Paolo Buzzetti. «Vi è bisogno di una visione strategica a medio-lungo termine dello sviluppo del territorio urbano», ha spiegato Buzzetti agli stati generali delle costruzioni. «Occorrono nuovi meccanismi urbanistici che rendano possibili, anche da un punto di vista economico, le operazioni di riqualificazione urbana, gli interventi di demolizione e ricostruzione e di sostituzione. E considerata la scarsezza di risorse pubbliche devono, per forza, rinvenirsi processi virtuosi con il coinvolgimento dei privati». In pratica, è necessario «il passaggio da una cultura di espansione a una cultura di riqualificazione». Sempre secondo l'Ance, il 2010 ha segnato per il terzo anno consecutivo una riduzione nel settore delle costruzioni, che dal 2008 a oggi ha perso il 17 per cento del mercato.

IL MOVIMENTO «STOP AL CONSUMO DI TERRITORIO» - In Italia spariscono ogni anno 500 chilometri quadrati di suolo. Inoltre, si stima che esistano almeno 2 milioni e mezzo di case vuote. Sulla base di questi dati è nato il movimento nazionale Stop al consumo del territorio, la cui assemblea costituente si terrà sabato 29 ottobre a Cassinetta di Lugagnano. Al movimento aderiscono molte associazioni, tra cui anche Slow Food. L'obiettivo è lanciare la campagna «Salviamo il paesaggio» con anche una proposta di legge popolare per cambiare le cose.

Giovanna Maria Fagnani
18 ottobre 2011

mercoledì 12 ottobre 2011

Decenza


Da qui.

Il limite della decenza

Oramai un rancore sordo e inestinguibile sta rendendo impossibile la convivenza di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti in uno stesso governo. Mentre le agenzie di rating declassano l'Italia, il ministro dell'Economia rilascia dichiarazioni in cui, neanche tanto velatamente e malgrado tardive e poco persuasive smentite, si indica come esempio virtuoso la scelta di Zapatero in Spagna di farsi da parte e di anticipare le elezioni. Altri ministri rispondono con invettive e addirittura, come Giancarlo Galan, oltrepassando la soglia dell'insulto. Non sono più i colpi e le tensioni che oramai da mesi intossicano il rapporto tra Berlusconi e Tremonti: siamo alla guerra totale. Ma un Paese in cui il governo è così spaccato appare un Paese senza timone. Allo sbando. Non ce lo possiamo permettere.
Il gorgo rissoso in cui sta sprofondando la lite tra il premier e il suo ministro non è solo un'offesa allo stile o una macchia che mina la credibilità dell'Italia. È il simbolo di una paralisi: la stessa che sta impedendo, nello smarrimento di quel minimo di senso delle istituzioni che un governo ha il dovere di onorare, la nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia.
Un governo che si comporta in questo modo autolesionistico scatena inevitabilmente la guerra di tutti contro tutti. Dove ciascuno gioca per sé, scambiando il proprio «particolare» per l'interesse generale che dovrebbe invece essere promosso e custodito da un governo democraticamente eletto. Ma un governo così lacerato appare sempre meno in grado di trasmettere agli italiani il senso di una riscossa e di un soprassalto di orgoglio. E quando la politica appare vuota e impotente, troppe corporazioni si affollano vocianti per rubarle il mestiere. Con il rischio che poi non sappiano più fare nemmeno il loro.

Senza una guida politica, oggi le «parti» aspirano abusivamente all'«intero»: non più parti sociali, ma surrogati di partiti politici. Con la pretesa di sostituirsi ai governi. E con il rischio che le singole parti sconfinino in un terreno in cui gli interessi particolari, frammentati e parcellizzati, siano scambiati per l'interesse generale. Una pretesa sbagliata. Una scena in cui tutti i ruoli si confondono. La Confindustria gioca la carta del protagonismo politico. Gli ordini professionali contrari alle liberalizzazioni si organizzano come lobby in Parlamento. La Confcommercio denuncia come leso «interesse generale» l'aumento dell'Iva. La Cgil sublima come «diritti fondamentali» gli interessi della sua base di pensionati e la Cisl quelli dei «suoi» statali. E così via. Tutti con la segreta speranza di accumulare visibilità e forza nell'attesa che il ciclo berlusconiano si esaurisca.
La lite tra il premier e il suo ministro dell'Economia non può perciò non avere una fine, e in tempi brevissimi. Se il ministro ritiene giusta la scelta di Zapatero, per il bene della Spagna, di togliersi dalla scena, tragga lui le conclusioni sull'eventualità che l'esempio spagnolo sia emulato dal governo italiano, o almeno dal suo ministro dell'Economia. E se il premier ritiene davvero, come sostengono i suoi pasdaran, che addirittura Tremonti abbia tramato con le agenzie di rating per infliggere un colpo durissimo al governo di cui pure è magna pars , non può pretendere che questo sospetto infamante, se confermato, possa restare senza conseguenze. In un Paese serio, non nel teatrino tragico che lo sta rappresentando.

06 ottobre 2011 07:56

mercoledì 5 ottobre 2011

Il Paese guarda attonito


Dal Corriere del 29.09.2011

Il partito che per quindici anni si è chiamato Forza Italia e ora si chiama Pdl nasce non solo come contenitore dei voti cattolici e socialisti. Si è proposto, sin dalla vera fondazione - il discorso della «discesa in campo» di Berlusconi -, come una forza di opposizione alla prospettiva di un Paese trasformato «in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna». Il centrodestra nasce cioè come difesa della politica dall'ingerenza della magistratura. Un obiettivo condivisibile, se non fosse stato sin dall'inizio viziato anch'esso dal conflitto tra il bene pubblico e gli interessi privati del leader, e di uomini che hanno guardato al suo partito come a un ombrello dai guai giudiziari. Garantismo e impunità sono separati da un confine ben preciso. Le vicende parlamentari di queste settimane l'hanno ampiamente oltrepassato. E il Popolo della libertà non appare più come un argine contro il dilagare delle Procure (cui in effetti accade di uscire dall'alveo), ma come il manto della Madonna della misericordia degli affreschi medievali, sotto cui corrono a ripararsi anche sedicenti perseguitati e autentici malandrini.

Le sentenze spettano solo alla magistratura. Non ai giornali. Ma neppure al Parlamento. Il Parlamento è chiamato a escludere che un eletto di cui si chiede l'arresto sia vittima di una persecuzione; o a dare una valutazione politica sull'opportunità che un ministro di un dicastero importante resti al suo posto, nonostante sia indagato per mafia. Il paragone con gli anni tra il '92 e il '94 non regge. I casi di Papa, di Milanese, di Romano non sono storie di ingranaggi della macchina del finanziamento illecito ai partiti: una macchina perversa, che però implicava una responsabilità collettiva, di sistema. Qui siamo di fronte a parlamentari accusati di ricevere regali costosi, auto di lusso, yacht in cambio di informazioni su inchieste giudiziarie o posti nei consigli d'amministrazione di aziende pubbliche; e a un ministro su cui incombono accuse che potrebbero rivelarsi anche più gravi di quelle che hanno condotto in carcere il suo ex compagno di partito Totò Cuffaro. Il garantismo impone di considerarli innocenti sino alla sentenza definitiva; l'opportunità politica e il principio di uguaglianza di fronte alla legge consigliano invece un passo indietro, sollecitato in passato dallo stesso presidente della Repubblica, nel caso infelice di Brancher, ministro per poche ore. Qui invece siamo al paradosso per cui Tremonti finisce imputato nel suo stesso partito non per avere mal riposto la fiducia nell'ex braccio destro, ma per non aver contribuito a «salvarlo».

L'opposizione ha la credibilità morale per condurre questa battaglia in nome dell'intero Paese? La risposta è no. Il caso Penati è gravissimo, e finora non sono venute risposte convincenti né dall'interessato né dai vertici del Partito democratico. E, quando fu chiesto l'arresto del senatore Pd Tedesco, nel voto segreto prevalsero le ragioni dell'impunità. È l'opinione pubblica, è l'intera classe politica che deve porsi la questione. Costruire un sistema giudiziario equo ed efficiente, che non punisca con la carcerazione preventiva - tutti i cittadini, non solo i parlamentari - ma accerti le responsabilità, è un'urgenza cui nessuno può sottrarsi. A maggior ragione i moderati e i liberali cui tocca ora chiudere al più presto questa stagione, e ricostruire su basi più solide quell'area della legalità e del merito che mai come oggi manca al Paese.

Aldo Cazzullo
29 settembre 2011 07:52

lunedì 26 settembre 2011

Non si ferma la storia

Dal Corriere del Veneto, 22 settembre 2011

Uno straniero ogni dieci veneti. Pudicamente, la chiamiamo «integrazione » ma è l’inizio di un’altra storia, di una strada senza ritorno verso il Veneto multietnico, multiculturale, plurilingue che potremmo definire (se non avesse un significato insultante) «contaminato». L’aspetto più paradossale di questa rivoluzione silenziosa è che invece di decidere tra i due soli comportamenti possibili, rassegnazione o ribellione con ogni mezzo, stiamo ancora remando nell’utopia, un vecchio gioco di società espulso persino dalle case di riposo. Gli ultimi difensori dell’identità regionale, asserragliati nei loro fortini cerebrali, credono ancora, o fingono di credere, che la scelta sia un affare di famiglia. Invece di constatare che siamo soltanto la tessera di un immenso puzzle planetario, si rifugiano nel mito, nell’isola che non c’è, nella resistenza mentale, nel «Veneto ai veneti»: nella Padania. Il leghismo, degenerazione senile del capitalismo, si auto-legittima fornendosi di una madre leggendaria agli albori del terzo millennio.
Mentre una feroce crisi economica dovrebbe riportare al buon senso anche i sognatori di mestiere, qualcuno si ritrae spaventato dalla vita di ogni giorno e si fabbrica i propri avi. Mi scuso per la franchezza: stiamo dando i numeri? Osservando Umberto Bossi e il suo erede Trota in televisione circondati dal loro «popolo », si può credere davvero che quella fosse la festa degli italiani? Che, sia pure in un frangente drammatico come l’attuale, una delle potenze economiche dell’Occidente sembri la parodia di una gita aziendale con i dipendenti che alzano il gomito e si scambiano lazzi e frizzi? Mio Dio, con millenni di storia sulle spalle giriamo in maglietta verde e farnetichiamo di piantare in asso la patria. Duole dirlo, ma visti da qui persino Silvio Berlusconi e il suo harem paiono squarci di realismo in un incubo notturno. Non esiste nessun Veneto dei veneti perché non si può fermare la storia e la storia ci porterà quello che le pare. Tenteremo soltanto di essere, da soli o in compagnia, persone passabilmente civili come lo siamo state finora. Il resto, come diceva Maurizio Costanzo, è vita. Stranieri che tirano la vita con i denti, che giocano l’ultima possibilità scappando dalla terra natia dove non hanno un domani e non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, figuriamoci se hanno anche altre bocche da sfamare. Non siamo noi la causa della loro miseria, come non lo era l’America quando i bastimenti portavano nel Nuovo Mondo la miseria italica, i nostri morti di fame. Non sarà certamente il nostro passato a renderci più lieve il carico che ora tocca a noi sopportare perché, come sa chi vuole saperlo, dalla storia mai nulla si impara oltre alla perseveranza nel commettere sempre gli stessi errori. Però, in fin dei conti, fare appello alla ragione e alla saggezza serve tutt’al più a fabbricare qualche altra illusione per tirare avanti come abbiamo sempre fatto in mancanza di alternative. Diventare ospitali obtorto collo, volenti o nolenti, non è consolante. Qualcuno ha un’altra soluzione che escluda ogni forma di violenza?
Fausto Pezzato

venerdì 16 settembre 2011

Conservatori e immobilisti


Un articolo che fa pensare, dal Corriere del 10 settembre.

Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo.
Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese.
Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.
Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino - con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire - mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.
Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.
Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.
In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.
Ernesto Galli della Loggia

venerdì 9 settembre 2011

Roma Ladrona?


Un bellissimo articolo apparso sul Corriere del Veneto.
Buona lettura!

Roma ladrona? E' Venezia che dorme

Le norme e il federalismo mancato

Nello stillicidio di dati di crescente drammaticità sulla situazione economica del Paese - e l’acme pare raggiunto dall’inusitato richiamo del Presidente della Repubblica del 5 settembre a tutte le forze politiche per sollecitare interventi coraggiosi e rapidi- e nel carosello di proposte di soluzione che s’accavallano, quello che frastorna l’uomo della strada è la varietà dei dati ammanniti da fonti anche apparentemente serie o che si avrebbe ragione di ritenere tali. In un’autorevole trasmissione di approfondimento, tra «ospiti» eccellenti e blasonati di titoli accademici altisonanti, si dibatteva dell’ormai solito refrain che «anche i ricchi paghino», pacifico per tutti che tale si dovesse considerare chi denuncia un reddito superiore a 200 mila euro. Sorprendente è stato che i due specialisti a confronto fondassero le loro teorie di rimedi su dati statistici radicalmente diversi: per l’uno i nababbi da spennare erano esattamente 78.500; per l’altro 800.000.
Hanno dibattuto interventi e rimedi, ma a nessuno dei due è venuto in mente di omogeneizzare il dato di partenza prima di elaborare i rimedi proposti. Proprio la gravità del problema dovrebbe imporre a tutti un autocontrollo sulla verifica dei dati utilizzati, con impegno di indicare la fonte da cui sono tratti; non foss’altro che per rispetto di chi ascolta o legge. Poi le teorie, i rimedi saranno quelli che si vuole, ma fondati su dati certi e verificabili. Non sono certo in grado di stabilire quanto dell’allarmismo di moda sia vero e fondato e quanto artefatto o fittizio; che la situazione sia grave lo si desume dall’intervento del Presidente; quanto lo sia e quali siano le soluzioni acconce a risolverla resta tutto da stabilire, alla condizione però che la cura si fondi su una diagnosi corretta. Questo è il punto focale: il terrore di proposte avventate, che dalla gravità della situazione in atto potrebbero trarre forza di penetrazione, finendo per aggravare il male. A due temi squisitamente veneti pare importante accennare: la sorte delle sette Province e il regime delle scuole materne «private » (leggersi per la stragrande maggioranza parrocchiali). Le Province: nella prima proposta si prevedeva la soppressione di due; poi una, Belluno, è stata graziata. Ora si propone la soppressione di tutte con legge costituzionale.
Ma che sappiano costoro di cosa stanno trattando? Passare dal Comune alla Regione in certe realtà come il Veneto diventa pura follia, se non si crea un’entità di media area che coordini le esigenze di territori omogenei. Pretendere di disciplinare il potere locale, per natura sua legato al localismo, con una legge costituzionale valevole per l’intera Penisola è fuori del tempo, una presa in giro. E poi che ci starebbe a fare l’autonomia legislativa delle Regioni? Ancor più risentimento provocano certe proposte di soluzione del problema delle scuole materne private. È semplicemente follia invocare una legge statale per omologare il «modello veneto», articolato su una fitta rete di asili parrocchiali. Ma di che federalismo blatera mai codesta gente, quando invoca poteri sempre nuovi e non esercita quelli che già ha? Solo un poeta del giure potrebbe comprendere la scuola materna nella materia istruzione, che spetta allo Stato. Si tratta di «assistenza» (alle famiglie) che la riforma costituzionale del 2001 ha assegnato alla Regione e fa semplicemente accapponare la pelle a sentir opporre come vigente e ostativo il Decreto n. 297 del 1994, che regola la posizione giuridica di tutte le «scuole di ogni ordine e grado». Allora funzionava così ed era legge; ma poi la riforma del 2001 ha cambiato tutto. Oggi l’esistenza di scuole materne statali è semplicemente un abuso, un residuato d’altri tempi e d’altri regimi. Ed è semplicemente lacrimevole che la Regione non se n’accorga e non s’attivi per prendersele, inserendole in una disciplina organica dell’intera sua materia, tentando addirittura di scaricare la sua gravissima responsabilità da omissione sulla solita «Roma ladrona», quando si tratta solo d’una Venezia addormentata.
Ivone Cacciavillani
08 settembre 2011

lunedì 5 settembre 2011

La fine della "felicità"





Dal corriere del veneto.




EDITORIALE

La fine della «felicità»


Tre manovre economiche in sei settimane, mentre le Borse bruciano senza pietà ricchezze e speranze. Risultato: tante incertezze ed una sola, spiacevole certezza, quella di sentirci più poveri. Anche se è ormai da tre anni che tante famiglie hanno iniziato a tirare la cinghia spesso rompendo il salvadanaio dei risparmi. Nel 2010, calcola l’Istat, la spesa media mensile delle famiglie venete è stata di 2876 euro; l’anno prima fu di 2857 euro. Quindi in un anno l’incremento è di circa lo 0,7 per cento, che però deve fare i conti con il serpente dell’inflazione - la tassa che non si vede - che è stata dell’ 1,5 per cento. Per i consumi insomma calma piatta, piattissima, una calma che tanto terrorizzava i naviganti sui velieri di un tempo e che oggi inquieta i commercianti, le imprese, gli economisti. Ed i consumatori, ovviamente. Poco consola sapere che Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto sono le regioni più ben messe quanto a consumi per cui, ad esempio, tra Veneto e Sicilia c’è una differenza di ben 1200 euro di spesa media mensile per famiglia, una cifra che suona beffarda nel centocinquantesimo dell’Unità (?) del Paese. Ma poco consola soprattutto perché i consumi nel 2008, l’anno in cui deflagrò la crisi, erano pari a 2975 euro al mese: ciò significa che in soli due anni le famiglie in Veneto hanno mediamente ridotto le spese di un centinaio di euro al mese.
Una sobrietà certamente non desiderata né gradita anche perché fa a pugni con quelle aspettative crescenti che tutti nutriamo nella nostra psicologia quasi come un diritto nei confronti del sistema capitalistico, pensando che domani andrà meglio di oggi e dopodomani ancor meglio. E gli acquisti e lo shopping sono notoriamente un segno ed una promessa che ci conferma nel senso di appartenenza al «sistema», ai suoi valori ed alle sue regole. Quarant’anni fa il filosofo francese Baudrillard scriveva «La società dei consumi» in cui non solo etichettava così le nostre società occidentali - centrate sul consumo, che ormai cominciava ad investire ogni spazio della vita psichica e materiale - ma dove sosteneva che dietro l’abbondanza dei beni si creavano nuove e generose mitologie chiamate progresso, tecnologia, sviluppo. Ma oggi, quando la contrazione dei consumi sembra tradire la promessa di felicità, quando le mitologie della modernità succitate entrano in affanno, chi garantirà la nostra soddisfazione e la nostra lealtà al «sistema»? E siamo ancora, allora, una «società dei consumi» o cos’altro? Nella migliore delle ipotesi quest’anno il Pil dovrebbe sfiorare un misero uno per cento e nonostante il buon andamento delle esportazioni (vendiamo all’estero quella «Dolce Vita», come Confindustria chiama il Made in Italy, che qui abbiamo perso di vista), gli occupati in Veneto sono nel primo trimestre settemila di meno rispetto all’analogo periodo del 2010. Ma soprattutto i tempi austeri che si aprono mettono in seria discussione la nostra fede nella religione dei consumi che ci aveva gioiosamente accompagnato fin qui.

Vittorio Filippi
30 agosto 2011

venerdì 22 luglio 2011

Benvenuto Nicola!


Con estremo piacere annunciamo che è nato Nicola.
Tantissimi auguri e congratulazioni a papà Angelo e mamma Sara!


Il gruppo continua a crescere! :-)

domenica 3 luglio 2011

Mondiali di Orienteering



Dal 20 al 28 Agosto si terranno sui nostri bellissimi colli Berici i MONDIALI MTB di Orienteering 2011.
Il 20 Agosto presso il Golf Club Colli Berici di Brendola si terrà il test Pre Mondiale.
Un appello per un piccolo grande gesto nel fare riconoscere la nostra italianità: fuori il tricolore e con orgoglio esponiamolo in ogni casa. Ci aiuterà in primis a salutare questo grande evento, e poi, visto che come comunità non abbiamo ancora avuto modo di festeggiarlo tutti assieme, ci donerà un momento ulteriore per ricordarci che la nostra bella Italia quest’anno compie 150 anni. Se poi l’amministrazione vorrà salutare l’evento con un tricolore che abbracci le nostre strade, credo questo sarà semplicemente il benvenuto.

sabato 2 luglio 2011

Articolo dell'Ass. Stefani: commento


Un commento dal nostro Consigliere, Fabrizio Bedin, all'articolo apparso su InPaese di Giugno 2011. Buona lettura.

Ho letto con felice attenzione l’articolo a firma dell’assessore Stefani dello scorso numero di In Paese.
E come si possono non condividere tali parole che riguardano la libertà di espressione e di opinione. La felicità deriva dal fatto che tale richiamo a queste libertà arrivi da chi siede nella maggioranza. Temevo veramente che non ci fosse più possibilità di confronto. Non voglio essere frainteso; con alcuni il confronto dialettico non è mai venuto meno, ma quando ci si inaridisce in sterili prese di posizione, o peggio, in alcuna volontà di confronto come avvenuto nel consiglio del 25 Maggio, beh, tali parole scritte sono solo di buon auspicio. Rammarica invece vedere che l’applicazione dei metodi di regime (siano questi filo fascisti o filo comunisti non mi importa, ad ogn’uno il suo) perduri nel tempo. Sulla poca volontà di accettare opinioni o consigli diversi, come opposizione, avevamo già avuto modo di dire la nostra (ricordiamo le proposte protocollate, il PAT, etc. et.). Sul fatto che questa allergia alle opinioni diverse si annidi anche all’interno della maggioranza invece deve fare riflettere. Sorrisi, abbracci e strette di mano in facciata, ma a scavare un pochino … brrrr. Ammetto che ho sempre avuto grosse difficoltà a relazionarmi con chi parte da posizioni che non si vogliono mettere in discussione. Peggio ancora se poi si usano i regolamenti a proprio uso e costume per fare passare tutto quello che si vuole fare passare. Nel suddetto consiglio per giustificare le richieste della maggioranza il nostro buon Segretario comunale, ha dichiarato che hanno deciso di dare “un’interpretazione estensiva del regolamento”. Beh, che dire, nel’ultimo consiglio si sono votati una ulteriore nuova convenzione sui Vigili Urbani da farsi con Montecchio Maggiore, senza inserire nella convenzione stessa i termini economici … il segretario ha avvallato anche questa, per la buona pace di chi ai regolamenti amministrativi ci tiene, e soprattutto ci tiene siano fatti bene. Fareste voi un contratto senza conoscerne i termini economici? Lascereste che questi termini siano eventualmente decisi da un comitato (così è stato definito), di cui non si conosce al momento la natura, e senza che questa poi ripassi per il consiglio comunale? Beh io personalmente no. Ed è proprio questo che fa parte del confronto, del capire che dal dibattito con persone che non la pensano come te può nascerne un arricchimento per tutti. Invece no, si vogliono appiattire le coscienze. Quindi sono benvenuti questi richiami alla libertà di espressione, e poco me ne importa se arrivano da chi non la pensa per forza come il sottoscritto, quello che è importante è che vi sia la libertà di poter esprimersi per alimentare il confronto delle idee. Poi sta all’intelligenza di chi governa carpirne le sfaccettature migliori.

Fabrizio Bedin

venerdì 1 luglio 2011

Serata CIS. Commenti.


Nel prossimo numero di InPaese a firma del nostro Emanuele, un articolo che commenta e riassume cosa è stato detto e quali sono le impressioni raccolte. Buona lettura.


Martedì 14 giugno 2011, nella gremita sala D del Centro di Pubblica Utilità di Vò ed alla presenza di vari rappresentanti delle istituzioni, i gruppi consiliari Brendola Viva e Progetto Civico per Brendola hanno invitato il consigliere provinciale Mario Dal Monte ad illustrare la storia che si è sviluppata finora attorno alla zona CIS di Montebello. Alla fine dei giochi che cosa abbiamo ricavato dall’oggettivo racconto? La bretella che va dalla rotatoria del casello attuale alla rotatoria della nuova strada per Recoaro (futura Pedemontana) si farà. Punto. Bella notizia? Si, per Montecchio. Non per noi.

Il vecchio casello verrà spostato. Forse. Nel 2018 partiranno i lavori. Forse. Se ci saranno i soldi. Questo significa che finché non ci sarà il casello, tutto il traffico che arriverà dalla Pedemontana, dalla Valchiampo e da noi del Basso vicentino, confluirà sul casello attuale e sul Melaro. Le code sono garantite fino almeno fino all’Orna.

Come evitare tale eventualità? Cosa dobbiamo chiedere a gran voce a tutte le istituzioni preposte (Comuni, Provincia, Regione, Ministero delle Infrastrutture, ecc.)? Dobbiamo insistere sul fatto che la strada che dovrà collegare l’arteria del Melaro e la zona ove la Pedemontana confluirà verso l’A4 e la Statale 11 (la stessa dove verrà collocato anche il nuovo casello), - la famosa bretella per intenderci - dovrà nascere e crescere insieme al contemporaneo spostamento del casello autostradale, in modo da non creare un problema di traffico insostenibile una volta che la Pedemontana sarà completamente realizzata. Finora si sono mobilitati soltanto i cittadini di Montecchio Maggiore, ma questo non basta: non si può infatti ragionare soltanto in termini di convenienza municipale.

Inoltre, la zona CIS contiene un’area commerciale di circa 80.000mq. con vari punti interrogativi sulla destinazione e con una possibilità inquietante che venga realizzato un grosso centro commerciale, che farebbe arrivare potenzialmente 50 mila macchine al giorno. Ripeto: 50 mila.
I Primi Cittadini dei comuni da Arzignano ad Alonte, tutti cioè quelli dell’Ovest vicentino, dovrebbero unirsi e pretendere delle certezze dalla Provincia, muoversi per portare vivibilità alla zona e ai propri paesi, visto che sono per il 90% tutti dalla stessa parte politica. Invece no, nessun coordinamento. Almeno fino ad oggi.
Alla fine della serata il sindaco, praticamente a dibattito chiuso, è intervenuto così: “Sembra di parlare con un muro di gomma, parlare non serve più a molto” e proponendo azioni eclatanti “io mi metterò davanti alla strada nuova e non aprirà finché il casello non verrà spostato!”. In attesa delle azioni eclatanti una domanda sorge spontanea: se il nostro sindaco non sa che fare e si trova in panne, con un amministrazione comunale quasi totalmente leghista (i paroni a casa nostra) e una provincia che più verde non si può, cosa ci dobbiamo aspettare?

Emanuele Mercedi
Progetto Civico per Brendola

giovedì 30 giugno 2011

Il federalismo che non funziona



Federalismo all'Italiana


La virtù non è compresa nel prezzo. Anzi, come si diceva, «soldi e santità, metà della metà». Anche con il federalismo fiscale non c’è niente di scontato. Molti hanno voluto credere che semplicemente con l’approvazione della legge 5 maggio 2009, appunto sul federalismo fiscale, avremmo pagato tutti meno tasse, almeno noi veneti. Poi le cose sono andate diversamente, perché la pressione fiscale è aumentata e aumenterà grazie a questa nuova legge, per la quale si è adoperato il ministro Calderoli, già autore del famoso «porcellum» (legge elettorale). Ma questo si sapeva, perché lo scopo della ormai famosa legge era quello di rendere gli amministratori locali responsabili di fronte ai propri cittadini, mettendoci in condizione di giudicare se ci sia corrispondenza tra le imposte pagate e i servizi erogati. Non quello di farci pagare meno tasse. Per raggiungere questo obiettivo bisognava aggiungerci la virtù. Che evidentemente ha ancora da venire, se qualche soldino in più dovremo tirarlo fuori. Non molto a dire il vero, ma pur sempre qualcosa.
Cinque province del Veneto si apprestano ad aumentare del 30% la quota di pertinenza regionale nei premi RC auto. Poi c’è l’addizionale regionale Irpef, prima abolita, quindi rapidamente reintrodotta. Ai comuni mancano le entrate dell’Ici, così, di riffa o di raffa, dovranno aumentare o introdurre qualche imposta, più o meno esplicita. Perché il federalismo fiscale, che è stato approvato è solo una «favola», così l’ha definito un tipo tranquillo, oltre che uno studioso, quale è Piero Giarda. E questo non ce l’hanno forse spiegato per benino. La legge del 2009 infatti ha lasciato il vecchio sistema di finanza pubblica praticamente invariato. A questo si è sovrapposta come fa un vestito nuovo su un manichino, la sostanza è rimasta quella di prima. È difficile far funzionare un sistema fiscale decentrato in un quadro centralizzatissimo. Ci viene il dubbio che la riforma fosse una battaglia più nominale che sostanziale, ma si sa noi pensiamo male. In ogni caso non si spiega come, ad esempio, la quota di finanziamento autonomo degli enti decentrati sia ancora molto bassa, all’incirca il 49% della spesa totale. Che razza di autonomia è quella in cui raggiungere il pareggio dipende da «Roma ladrona»?
La riforma federalista poi si è fermata fuori dalla porta delle regioni a statuto speciale, che continuano a spendere e spandere, senza tener conto dell’andamento generale del resto del paese: basti pensare che la spesa procapite del personale delle amministrazioni regionali nel Veneto è pari a 31 euro contro i 2.162 della Valle d’Aosta o i 2.040 delle Provincia Autonoma di Bolzano (media nazionale 109 euro). Non è quindi questione di essere favorevoli o contrari al federalismo fiscale. Parliamo di questa legge che, ancorché di ispirazione leghista, sembra fatta, come si dice, «all’italiana»: una bell’etichetta, ma la sostanza è tutt’altra. In questo momento non ci volevano certo nuovi strumenti che aumentassero, direttamente o indirettamente, la pressione fiscale sui cittadini. Poi c’è il discorso della virtù: questo federalismo la dà per scontata, pensa dei nostri amministratori come persone naturalmente virtuose, che avrebbero saputo risparmiare e migliorare i servizi senza aumentare le spese. Invece la virtù non è una cosa facile e, soprattutto, non va proclamata, caso mai praticata.
Sergio Noto
29 giugno 2011

martedì 14 giugno 2011

Serata CIS


Questa sera siete tutti invitati!

giovedì 19 maggio 2011

Manifesti repubblichini





Pubblichiamo l'interrogazione presentata pochi giorni fa e che verrà discussa nel consiglio comunale di mercoledì 25 maggio alle 20.30 in seconda convocazione.
Chiediamo che venga chiarita la posizione del Sindaco in merito al contenuto del volantino “repubblichino” affisso a Brendola lo scorso 25 aprile, di cui si è ampiamente discusso.



Lo scorso 25 aprile a Brendola sono stati affissi nelle bacheche pubbliche alcuni volantini inneggianti alla Repubblica di Salò.
Gli autori del gesto, nel fare ciò, hanno talvolta strappato, talvolta coperto i manifesti con il programma delle celebrazioni per la Festa della Liberazione.

Sui giornali dei giorni seguenti abbiamo letto le seguenti dichiarazioni:
  • Il Giornale di Vicenza, 26 aprile, Sindaco Ceron: “Nel rispetto della storia, tutte le diverse posizioni hanno uguale cittadinanza, da una parte o dall'altra che siano, ma facendo attenzione a non ledersi a vicenda».
  • Il Giornale di Vicenza, 26 aprile, Vicesindaco Meneghello: «È stato un gesto stupido. Chi è in contrapposizione può mettere i propri manifesti senza strappare quelli altrui.”
  • Corriere del Veneto, 26 aprile, Sindaco Ceron: “La storia va rispettata, potevano starci entrambi i volantini. Ma mettere i fogli “repubblichini” sopra a quello del Comune è segno di inciviltà.”
  • Il Giornale di Vicenza, 1 maggio, Sindaco Ceron: “Deploro fortemente l'atto di strappare il nostro manifesto perpetrato nottetempo da ignoti che nulla hanno a condividere con questa manifestazione e con il ricordo del 25 aprile di 66 anni fa.”

Chiediamo a Sindaco e Vicesindaco, che giustamente hanno condannato l’accaduto, di esprimere una chiara e precisa posizione anche in merito al contenuto degli scritti, riconoscendo nei volantini repubblichini la volontà di inneggiare al fascismo, contraria alla normativa italiana.

Ricordiamo a tal proposito che il reato di apologia del fascismo è previsto dalla legge 20 giugno 1952 n. 645 che all'art. 4 sancisce il reato commesso da chiunque «pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche».

Il Vice Sindaco si deve dimettere!


A firma di Progetto Civico per Brendola e Brendola Viva, questo l'articolo sui fatti relativi a Stefano Meneghello uscito su InPaese di Maggio 2011.



Le opposizioni chiedono al Vice Sindaco di rassegnare le proprie dimissioni. Crediamo fermamente che una persona condannata da un Tribunale Penale per reati contro l’ambiente non possa rimanere a rappresentare il paese. Ci chiediamo anche come i consiglieri di maggioranza e l’assessore all’ambiente possano accettare che la seconda carica del paese rappresenti ancora Brendola ed i propri cittadini dopo quanto accaduto. Questo giudizio è venuto dopo le elezioni, quindi senza che gli elettori potessero esprimere una propria opinione in merito. Se alle prossime elezioni vorrà ricandidarsi e troverà il consenso per essere rieletto nessuno  avrà molto da dire, ma ora NO. Il Vice Sindaco si deve dimettere. Non può più rappresentare il nostro paese. Ad aggravare la posizione le recenti affermazioni che abbiamo letto sulla stampa relativamente alle locandine che richiamavano la Festa di Liberazione del 25 Aprile nel nostro paese. Senza dilungarci su quello che riteniamo come un atto insulso ed incivile, che richiama a momenti nefasti in cui le persone erano sottomesse ad un regime totalitario che negava anche la più banale libertà di espressione, ci limitiamo a ricordare che l’apologia al fascismo in Italia, caro il nostro Vice Sindaco, è ancora per nostra fortuna reato (… e questo lo ricordiamo anche ai poveri esecutori dell’insulso atto). È quindi quantomeno deprecabile dichiarare che “ Chi è in contrapposizione può mettere i propri manifesti senza strappare quelli altrui”, caro il nostro Vice Sindaco. Se poi questi sono i risultati del “malessere politico” crediamo debba per lo meno ritirarsi a riflettere sul fatto che questo malessere si sta creando ad arte con la complicità di un assessore regionale che spesso è stato ospitato dalla nostra amministrazione. Anche in questo caso ci basta leggere le parole di censura del sindaco Tosi riguardo tale pensiero, senza quindi doverci inoltrare sulla volontà di rivisitare momenti storici quali la caduta del muro di Berlino, piuttosto che la festa di LIBERAZIONE del 25 Aprile, piuttosto che etc. etc.. I risultati sono questi? Noi siamo qui per guardare al futuro coscienti delle esperienze del passato, e non per rivisitare il passato per farlo tornare nel futuro.

venerdì 6 maggio 2011

...e un lieto evento!


Dopo quasi nove mesi d'attesa, ieri sera è nata Chiara Massignani (si fanno sempre attendere 'ste donne!).
I nostri vivissimi complimenti alla mamma Maria, in primis, e anche (ma se li merita? :-D ) al papà Michele.

Benvenuta Chiara!

mercoledì 4 maggio 2011

Addio Claudio

Progetto Civico per Brendola saluta un caro amico che ci è stato vicino nel cammino di crescita del gruppo.
Le nostre più sentite condoglianze alla Famiglia e ai parenti tutti.

martedì 5 aprile 2011

...fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare.


Ecco un articolo che merita tantissimo.
Il problema vero che non viene mai affrontato.
Buona lettura!

Da qui

I lavori che gli italiani "non vogliono più fare", o la paga che non vogliono (ancora) prendere?

Questa storia la sento fin dalle prime ondate di immigrazione in Italia, intorno alla fine degli anni '80 (ricordate i filippini? e i polacchi?). "Fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare"  era un'osservazione che forse aveva un qualche senso, in un Paese pieno di laureati che riuscivano a trovare lavoro, ben pagato, o che erano ancora in grado di avviare con qualche sacrificio un'attività professionale o imprenditoriale. Chi aveva più voglia di programmarsi un futuro come muratore, bracciante, domestica, sguattero di cucina? Molto meglio, anche nei casi di scolarità più bassa, andare in fabbrica.

Oggi questa affermazione suona molto più sciocca ed è completamente priva di significato. La verità è che gli stranieri sono quelli che prendono le paghe che gli italiani non vogliono rassegnarsi a prendere. Raccogliere pomodori a 15 euro al giorno? Per farsi bastare una paga simile occorrono precisi requisiti: vivere in venti persone in una cantina senza servizi igienici, mangiare quel che si trova, avere come unico mezzo di trasporto il furgone del caporale.
Agli italiani mancano appunto questi requisiti fondamentali. L'italiano avrebbe l'esosa pretesa di almeno una camera ammobiliata, due pasti caldi, un'auto usata, la domenica libera, e per potergli concedere questi lussi da basso impero bisogna pagarlo almeno 40 euro al giorno. La trattativa è nulla ancora prima di cominciare, sarem mica matti a strapagare la gente.

La percezione di molti è quindi corretta: "Gli stranieri ci portano via il lavoro", sento dire da padri di famiglia di periferia che fino a ieri facevano i muratori e ora stanno a spasso, mentre il rumeno ha preso il loro posto. Questi signori farebbero i muratori più che volentieri, sapete, anche se sono italiani: ma non a 20 euro al giorno in nero. Il rumeno prende la paga che gli italiani non possono prendere. O meglio: tanti italiani la prendono già, negli scantinati dei terzisti napoletani, nei negozi del centro di Roma, nei call center al nord. Ma almeno riescono a stare al caldo d'inverno e magari seduti.

Forse è per questo che i migranti li hanno portati tutti in Puglia, in tendopoli da dove si può agevolmente scappare: fuori dalla tendopoli ci sono già file di furgoni di caporali a fauci spalancate, pronti ad inghiottire chi non ha una meta all'estero. E' così che va avanti questa disastrata economia: braccia semigratuite consegnate deliberatamente dalla politica alla malavita che le sfrutta.

Ora, personalmente vedrei solo due vie di uscita per finirla con questo stato di cose: o gli italiani, non trovando più neppure il call center, finiscono nei campi di pomodori a 15 euro al giorno, oppure si costringe chiunque dia un lavoro a chiunque, a pagare con busta paga sindacale. Quest'ultima ipotesi mostrerebbe come magicamente tanti italiani sarebbero disposti eccome a fare i braccianti o gli sguatteri o i muratori, a mille euro al mese. Ma il problema dei salari è l'elefante nella stanza: quando si tratta di extracomunitari, si parla di tutto meno che di questo, anche se proprio questo è il punto saliente.

La prima soluzione, invece, è quella a cui inesorabilmente sembra spingerci questo andazzo. Tutti schiavi uguale, il paradiso del datore di lavoro.

Lega di lotta



Ecco un articolo che il nostro Michele ci consiglia.

Buona lettura!
(Da Corriere.it)

Lega di lotta, non di governo

La crisi della leadership berlusconiana a stento riesce a mascherare un'altra crisi che sta esplodendo in questi giorni: la crisi della Lega. È la crisi che è raffigurata come meglio non si potrebbe dalla foto di quella rete del campo profughi di Manduria, semiabbattuta e superata d'un balzo da centinaia di tunisini poi dispersisi nei dintorni. Con l'incisività perentoria delle immagini essa mostra l'impotenza di un ministro leghista dell'Interno, Maroni, che, molto bravo ad arrestare mafiosi e camorristi, non sa invece che pesci pigliare proprio sul tema forse più caro alla propaganda e all'ideologia del suo partito: quello dell'immigrazione. Bossi ha un bel dire agli immigrati «fuori dalle palle». Il suo ministro non è capace neppure di trattenerli dietro una rete: non dico neppure, naturalmente, di respingerli in mare lasciandoli al loro destino, così come invece, ascoltando le grida di Bossi, qualche ingenuo e feroce leghista forse si è immaginato che potesse accadere. Ma evidentemente un conto sono i comizi a Pontida, un altro conto fare seguire alle parole i fatti.

La verità è che quanto accade in questi giorni sta mostrando l'impossibilità/incapacità della Lega ad essere un vero partito di governo. Con l'ideologia leghista si può essere ottimi sindaci di Varese e perfino di Verona, ma non si riesce a governare l'Italia. Non si riesce, cioè, a pensare davvero i problemi del Paese in quanto tale (non solo nella sua interezza, ma anche nella complessità dei suoi rapporti internazionali), e tanto meno immaginarne delle soluzioni. Con l'ideologia leghista al massimo si può stare al governo, che però è cosa del tutto diversa dal governare. Si può al massimo, cioè, essere alleati gregari di una forza maggiore e occupare dei posti: ma al solo scopo, in sostanza, di chiedere mance e favori per i propri territori. Il limite della Lega è per l'appunto questo: a chiacchiere essere contro «Roma ladrona», ma poi essere condannata a comportarsi nei fatti come un tipico partito di sottogoverno.

Questa posizione sostanzialmente subalterna della Lega è l'inevitabile conseguenza di quel vero e proprio bluff ideologico che è l'evocazione della Padania (con implicito sottinteso separatista). Non si può governare nulla che riguardi l'Italia, infatti, tanto meno un problema come l'immigrazione, volendo essere solo «padani». Quello della Padania, in realtà, è un bluff che solo la stupida timidezza delle forze politiche «italiane» non ha fin qui avuto il coraggio di «vedere», e che Bossi adopera all'unico scopo di marcare il proprio impegno territoriale e il proprio feudo elettorale. Ma che per il resto è di un'inconsistenza assoluta presso lo stesso elettorato leghista.

Lo dimostrano con il loro comportamento gli stessi amministratori locali della Lega, i quali, molto saggiamente, quando è il momento della verità non se la sentono quasi mai di onorare davvero il bluff «padano». Come si è visto ad esempio - uno solo tra i tanti - quando nei giorni scorsi il governatore Cota, dovendo scegliere tra il partecipare solennemente alle celebrazioni dell'Unità d'Italia e del ruolo in essa avuto dal suo Piemonte, e in alternativa avallare invece le idiozie anti italiane delle «camicie verdi» restandosene a casa, non ha esitato a scegliere. Ben consapevole che, qualora se ne fosse restato a casa, molto probabilmente si sarebbe giocata la rielezione.

Ernesto Galli Della Loggia
04 aprile 2011

venerdì 1 aprile 2011

Riflessione


Una riflessione del nostro coraggioso Consigliere, Fabrizio Bedin.
Buona lettura.




Prima di scrivere questo testo mi sono imposto una riflessione. Non volevo infatti andasse ad accompagnare i già molti che hanno più un taglio reclamistico per questo o quel gruppo (e da cui nemmeno il sottoscritto si è probabilmente sottratto), bensì un’analisi su quelle che sono le cose concrete.
Non voglio nemmeno fare facili ed inutili polemiche, non interessano a nessuno. Troppo semplice sarebbe controbattere al grande parlare che si fa sul tema ambientale (ne prendo uno come esempio, non me ne voglia nessuno, potevo parlare di viabilità, di sviluppo territoriale, etc.), segnalando che il nostro comune è stato cancellato con ignominia, dalla Comunità europea, dalla lista delle amministrazioni virtuose per non avere dato seguito agli impegni presi sulle politiche che guardavano alle riduzioni dei gas serra, oppure sul tardivo intervento avvenuto sui fossati del Palù (malgrado segnalazioni e rassicurazioni varie), o piuttosto far notare come gli interventi di pulizia degli stessi, hanno portato a fare franare le rive (spero non pagheremo noi gli interventi …).
No, voglio cercare di fare un passo in avanti. Credo che Brendola e chi la abita meriti molto di più. Vi è una comunità che non ha più bisogno delle polemiche legate all’unità d’Italia, a quelle del 25 Aprile (S. Marco, patrono di Venezia, cari i miei serenissimi), a quelle legate ad un PAT mai passato realmente attraverso un confronto serio e regolamentato tra chi rappresenta i cittadini.
La comunità ha bisogno di avere delle risposte che guardino con lungimiranza al futuro. Potremmo tirarci i capelli sulla nuova palestra fino al suo completo realizzo. I lavori ritardano perché il luogo è inadeguato? Serve a poco dire “lo avevamo detto”, quello di cui nessuno parla è cosa ce ne faremo delle altre palestre. Alle scuole di Vò manca una zona all’aperto dove far fare ricreazione ai bambini? Si potrebbe anche proporre di chiudere la zona antistante la scuola (fermi tutti, non ho scritto che è la soluzione migliore), ma che senso ha proporlo se poi, visto che arriva da un componente di un gruppo di opposizione sarà l’ultima cosa che i nostri amministratori faranno (o la prima a non essere fatta). E si potrebbe continuare: mercato contadino, proposte per i commercianti, viabilità, …
Tal riflessione vuole andare oltre le inutili parole che si sono spese e si spenderanno senza guardare ai fatti concreti e condivisi, per il bene della comunità.
Negli ultimi 20 anni si è messo in atto uno scontro istituzionale che come risultato ha portato all’arretramento del nostro paese, prima a livello nazionale e poi via via fino al nostro ambito locale (e che, siamo da meno noi?) fino a fare dimenticare la cosa che dovrebbe essere più importante per un amministratore, ovvero il bene del territorio.
Per chi frequenta la messa domenicale, nelle preghiere è spesso presente un richiamo alla lungimiranza di chi ci amministra: non credo sia edificante dovere auspicare la grazia di Dio per ritrovare armonia di intenti.
Ed è anche troppo facile dire “hanno vinto le elezioni, amministrino”. E’ troppo facile per chi lo dice, per chi fa l’opposizione e per chi amministra nascondersi dietro queste parole. Il confronto con chi la pensa in modo diverso è, a mio avviso, segno di intelligenza, faticosa intelligenza. Ora si che mi trovereste d’accordo nel dire chi amministra ha l’onere e l’onore di prendere le decisioni. Dopo il confronto.
Abbiamo visto nella nostra piccola realtà locale sfasciarsi gruppi di persone che assieme potevano dare una prospettiva di grande crescita al territorio, piuttosto che altri che per dogma politico non “potevano” aggregarsi. Perché? Non me lo chiedete, veramente spesso non riesco a comprendere i comportamenti di noi membri del genere umano. Credo che le persone siano in primo luogo sempre espressione di una comunità civica, mentre per il resto sono parte di contingenze che a volte fanno più da freno che altro. Quello a cui però non posso sottrarmi è la riflessione a cui ho appena dato voce (scrittura). Solo l’assieme delle persone può dare al territorio ed alla comunità le risposte che porteranno Brendola a poter guardare ad un futuro radioso …  per noi e per i nostri giovani. Se poi questo processo inverso coinvolgerà anche il livello nazionale, credo ne guadagnerà ancora di più tutta la nostra bene amata Italia.