sabato 22 dicembre 2012

Leader e capetti che evaporano



Un ottimo articolo che ci mostra come un era sta terminando, non senza caos, ma, del resto, quali cambiamenti sono avvenuti senza distruggere la normalità pre-esistente?






Leader e capetti evaporano come la Seconda Repubblica


Da Veltroni alla coppia La Russa-Gasparri: chi si defila, chi resiste, chi si ricicla. Tra amicizie finite e rottamazione

MATTIA FELTRI
ROMA

Quell'asfissiante sentimento di dejà vu alla vista di Silvio Berlusconi che muove guerra al fisco draculesco e ai comunisti italocinesi, all'imposizione dei monologhi congelati di Roberto Benigni, alla prospettiva del milionesimo derby sputazzante fra destra e sinistra, ha nascosto soltanto un poco il magico scorcio dentro cui si consuma la fine di un’epoca. Non basta qualche tignoso resistente, di cui Rosy Bindi è la campionessa, a mascherare la decimazione di quel gruppo di capi e capetti che hanno agitato vent’anni (e qualcuno oltre) di Repubblica. Il primo ad abbandonare il ring è stato Walter Veltroni, con suprema eleganza oltretutto, e nonostante la perfidia umana avesse intravisto nel gesto l’opportunismo del fuoriclasse, che farà della scelta di oggi il punto di forza di domani. E che sa di trascinare con sé, e l’ha trascinato, il duellante di sempre: Massimo D’Alema. Già questo basterebbe per dire - nella piccolezza quotidiana del nostro lavoro - che nel Parlamento nulla più sarà come prima. Ma questa strana rivoluzione soltanto all’apparenza discosta, quasi dolce e silenziosa, si sta portando via alleanze, amicizie, soprattutto teste. Fa impressione la ruvidezza con cui tutti scansano Gianfranco Fini, aizzato contro Berlusconi, blandito, illuso e ora fatto da parte. I centristi dicono che la sua storia con la loro non c’entra niente; a sinistra non c’è nemmeno da dettagliare; a destra lo considerano Badoglio; lunedì sera persino lo sfiancato Marco Pannella ha risposto con repulsione all’invito a mangiare e bere del presidente della Camera: «Mi fai pena».

Ci sarà qualche anima pia disposta a garantire l’ultimo scranno a Fini (e i suoi cagnacci, Italo Bocchino e Fabio Granata)? Così come lo avrà Umberto Bossi, che rientrerà a Roma non più come geniale incendiario, ma nel ruolo del nonno simpatico e un po’ citrullo, che gira a farsi tastare il muscolo del braccio. La vedete questa Seconda repubblica, in fondo un trascinamento alla meno peggio della Prima, evaporare quasi ai margini della scena? Ve ne siete accorti che Emma Bonino, aspra e schietta come sempre, ha definito non automatica e pletorica la sua candidatura? Avete fatto caso che la vecchia zia Livia, intesa come Turco, molla tutto senza sprecare una sillaba né rabbiosa né malinconica? Avete riflettuto sulla ripulitura impietosa che rischia di fare l’Udc di Pierferdinando Casini - lui della resistenza dell’amianto - se intende mettersi con i centristi montiani e montezemoliani, i quali pretendono di andare alle elezioni senza certi ferrivecchi, quali sono stati catalogati per esempio Lorenzo Cesa ed Enzo Carra (e chissà, Rocco Buttiglione)?

Una mattoncino dopo l’altro, e qualche pietra angolare qua e là, la casamatta è tutta sbrecciata. Li vedi vagare, i soldatini. Ignazio La Russa si separa dal compagno (pardon) di una vita, Maurizio Gasparri. Il primo a imbarcarsi sulla scialuppa di Guido Crosetto e Giorgia Meloni, il secondo aggrappato alla bagnarola di Berlusconi. Sempre che ce la facciano a infilarsi di nuovo nel palazzo, quale rilievo avranno i vari Gianni Alemanno, Fabrizio Cicchitto, Altero Matteoli? Non ce ne eravamo accorti, ma hanno potuto più a destra le faide che a sinistra la rottamazione di Matteo Renzi. Sandro Bondi non ne vuole più sapere, e resterà a casa a studiare politologia. Beppe Pisanu concede interviste che concludono una lunga e prudente dissidenza annunciando che adesso basta, va da Casini a cercare asilo. Claudio Scajola incontra soltanto persone che si girano dall’altra parte; «nel Pdl ci stiamo io e Giorgia Meloni o Scajola e Dell’Utri», ha detto domenica Crosetto; è che a Scajola nemmeno Berlusconi apre più la porta. E, a proposito di Dell’Utri, l’ultima è parola sarà la sua, che ha detto di aver parlato con Silvio, e di aver aggiustato tutto, o quella pubblica di Silvio medesimo, per il quale ci dispiace tanto ma «non possiamo più permetterci di candidare Dell’Utri»?
Ecco, questi sono i tempi e queste sono le facce. Nemmeno ci si pensava, ma sono gli ultimi mesi per Giorgio La Malfa, che esordì a Montecitorio nel 1972 col Partito repubblicano (dunque più longevo di suo padre Ugo, parlamentare per trentatré anni), per Calogero Antonio Mannino detto Lillo, che esordì nel 1976 con la Democrazia cristiana, e per Carlo Vizzini, stesso anno d’esordio di Mannino, ma col Partito socialdemocratico. E, se questo è, le ultime righe se le merita il padre della Seconda repubblica, promotore con Mario Segni del referendum sull’uninominale secco e con Romano Prodi dell’Ulivo. Si tratta di Arturo Parisi, che saluta con la sua epoca.

lunedì 10 dicembre 2012

L'argine del Quirinale...


Un altro interessante articolo.


L'argine del Quirinale ridimensiona le pretese di un Pdl antigovernativo
Ma Berlusconi non riesce a ottenere l'election day a febbraio

Lo strappo è riuscito a metà. Silvio Berlusconi forse ha raggiunto il vantaggio di essere già in campagna elettorale, rispetto a partiti che per senso di responsabilità continuano ad appoggiare il governo di Mario Monti. Ma l'idea di aggiungere allo strappo la spallata contro la legislatura, per ottenere una giornata unica di elezioni anticipate a febbraio, si è dimostrata irrealizzabile. L'argine rappresentato dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sembra in grado di reggere. Le consultazioni che ha fatto ieri al Quirinale riconsegnano un centrodestra disponibile a garantire un'«ordinata conclusione». Significa approvazione della legge di Stabilità e forse qualche altro provvedimento, con un occhio ai due vertici europei in programma a metà dicembre e a metà febbraio del 2013: anche se in occasione del secondo le Camere saranno già state sciolte.

L'ipotesi sempre più probabile è che si voti per le politiche il 10 e 11 marzo. Forse negli stessi giorni ci saranno le elezioni regionali in Lombardia e Molise. Ma nel Lazio travolto dagli scandali della giunta di Renata Polverini le urne saranno aperte il 3 e 4 febbraio, come il Pdl temeva e ha cercato di evitare. Ma nonostante l'atteggiamento formalmente rispettoso nei confronti del presidente del Consiglio, ieri il segretario del Pdl, portavoce delle istanze berlusconiane, Angelino Alfano, ha confermato che per il Cavaliere l'esperienza del governo dei tecnici è chiusa. Non ci sarà ancora crisi, ma il maggior partito della maggioranza ha già un piede fuori. E dai toni ostili alla politica economica e al rapporto di Monti con l'Europa lascia indovinare una campagna elettorale non troppo dissimile da quella leghista.

D'altronde, l'ex ministro dell'Economia di Berlusconi, Giulio Tremonti, si è già alleato col Carroccio e ha cominciato ad attaccare Palazzo Chigi e, indirettamente, la Bce. Il ricongiungimento del defunto «asse del Nord» su posizioni di questo tenore non può essere escluso. Obiettivo: tentare una spericolata operazione di autoassoluzione per la sottovalutazione della crisi economico-finanziaria che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi nel novembre del 2011; e tentare di convincere l'opinione pubblica che «si stava meglio quando si stava peggio», scaricando su Monti tutte le responsabilità di problemi ereditati e non provocati; anzi, parzialmente risolti.

Con un filo di ironia, ieri il presidente del Consiglio è entrato alla Scala di Milano commentando: «Il Re Sole si è un po' allontanato da me». E le parole sono state viste come un'allusione allo smarcamento di Berlusconi. Ma la sensazione è che, con la sua accelerazione, il Cavaliere-Re Sole si sia allontanato da diverse realtà; e forse che sia accaduto anche il contrario. Sembra che nel Partito popolare europeo la prospettiva di un Pdl avviato a una campagna elettorale anti-Monti, e dunque anti-Ue, sia guardata con preoccupazione; e con domande crescenti sull'omogeneità dei partiti che ne fanno parte. Fra Cei e Vaticano, rimbalzano voci di un'irritazione quasi unanime per lo strappo contro il governo dei tecnici: bastava scorrere le pagine del quotidiano Avvenire di ieri, o ascoltare Tv2000 , l'emittente dei vescovi.

Il dito, però, non è puntato solo su Berlusconi ma anche su Alfano, che fino a pochi giorni fa aveva escluso ai propri interlocutori ecclesiastici la ricandidatura del Cavaliere e garantito lo svolgimento delle primarie. Il timore palpabile è che l'operazione si dimostri un elemento di divisione e alla fine di sconfitta per i moderati, delusi da tempo dal centrodestra e a caccia di nuovi interlocutori. Probabilmente è vero che chiudere la stagione berlusconiana senza un passaggio elettorale era impensabile. Ma farlo in queste condizioni non prepara una transizione indolore e una maturazione del sistema politico. Piuttosto, ingessa alleanze che sopravvivono a se stesse in entrambi gli schieramenti; e una leadership del centrodestra che si ripropone stancamente all'elettorato, zavorrata non solo dai processi ma soprattutto dai magri risultati ai quali ha tentato di

Massimo Franco

Il complesso della destra


Un bell'articolo del 25 novembre 2012 dal Corriere.



Il complesso della destra
Ciò che resta del Pdl

In Italia Destra e Sinistra sono entrambe in una condizione di incompletezza anche se in modo opposto. Mentre la Sinistra, infatti, gode di un forte e stabile insediamento socio-culturale, che però riesce molto difficilmente ad allargare fino a conseguire una propria maggioranza elettorale, la Destra, invece (considero Destra tutto ciò che non è Sinistra, e parzialmente dunque anche la vecchia Democrazia cristiana, pur con le specificità di cui appresso) la Destra, dicevo, può invece contare fisiologicamente su una maggioranza di voti, che però non riesce a trasformare in un autentico insediamento nel tessuto socio-culturale del Paese. L'Italia, insomma, è un Paese che per sua natura è intimamente conservatore e vota perlopiù a destra o per il centrodestra, ma ha una prevalente cultura politica organizzata e diffusa che è di sinistra. Nelle urne vince per solito la Destra (o il Centro che raccoglie gran parte di voti di destra, com'era la Dc, che aveva di certo anche un suo radicamento - cattolico per un verso e di sottogoverno per l'altro - ma non seppe aggiungerne alcuno specificamente suo e diverso), ma nella società civile quella che di gran lunga si fa più sentire è la voce della Sinistra.

Proprio quanto ho appena detto spiega due tratti specifici della vita politica repubblicana. Da un lato, il fatto che a cominciare da Togliatti la Sinistra, consapevole del carattere organicamente minoritario del proprio consenso elettorale, ha quasi sempre perseguito un accordo con una parte della non-Sinistra (in questo, a conti fatti, sono consistiti il «dialogo con i cattolici» e l'invenzione della «sinistra indipendente»); e dall'altro, invece, che la Destra, anche se elettoralmente fortissima, sembra esistere in un certo senso solo nelle urne, essendo in tal modo esposta al rischio di collassi politici e d'immagine improvvisi, capaci di portare in pratica alla sua dissoluzione. È precisamente ciò che in qualche modo assai complesso accadde alla Dc nel 1993-94, e che ora sta capitando in modo diretto e catastrofico al Pdl.

Il quale paga il prezzo del fatto che, nato come un partito di plastica, in tutto e per tutto artificiale, e poi inebriato dal successo elettorale, non si è mai curato di diventare qualcosa d'altro: qualcosa per l'appunto che avesse un retroterra effettivo di idee e di valori nella società italiana. Non se ne è mai curato, vuoi a causa dello strabordante, narcisistico senso di onnipotenza del suo capo, personalità certo fuori dal comune, ma in sostanza di scarsissima intelligenza delle cose politiche e di ancor più scarsa capacità di leadership (consistente ai suoi occhi in nulla più che nel principio: comando perché pago, o perché ho il potere di farlo). E vuoi per la prona accondiscendenza di tutti coloro che egli ha chiamato intorno a sé: chiamati, e rimastigli intorno, proprio perché capaci di accondiscendere sempre, e in forza di ciò, solo di ciò, di avere un ruolo importante.

Così il Pdl è stato in grado, sì, tesaurizzando il sentimento antisinistra del Paese, di vincere due o tre elezioni. Ma nel momento in cui limiti e pochezze di Berlusconi sono emersi in pieno (già tre anni fa), e lo stesso Berlusconi si è trovato rapidamente messo all'angolo, allora sotto i piedi del vertice, ostinatosi fino all'ultimo a non vedere o a far finta di nulla, alla fine si è aperto il baratro. E tutti i nodi sono venuti al pettine tutti insieme. Il vertice del Pdl oggi paga per le mille cose promesse, annunciate e non fatte, per il malgoverno e per il sottogoverno; paga per una politica estera priva di qualunque autorevolezza, biliosa e inconcludente; paga per lo straordinario numero di gaglioffi di ogni calibro che in questi anni hanno scelto il Pdl come proprio rifugio e che non poche volte lo stesso vertice ha accolto al suo interno senza che nessuno protestasse; paga per gruppi parlamentari scialbissimi, gonfi di signore, di avvocati di varia risma e di manager pescati dagli addetti di Publitalia non si sa come; e non si finirebbe più.

Ma paga soprattutto perché si è mostrato incapace (proprio il partito del Grande Comunicatore!) di parlare al Paese. Infatti, presentatosi originariamente come espressione massima della società civile, il Pdl è diventato in breve quanto di più «politicistico» e autoreferenziale potesse immaginarsi, presente e attivo quasi esclusivamente negli spazi istituzionali. Ma altrove del tutto assente, a dispetto di tanti suoi elettori in buona fede che oggi non meritano certo lo spettacolo a cui sono costretti ad assistere. In tal modo il Pdl non ha fatto altro che confermare l'antica difficoltà della Destra italiana postfascista ad agitare nel Paese temi e valori propri, a rappresentarli e a diffonderli con la propria azione politica, sì da costruirsi grazie ad essi - in positivo, non più solo per semplice contrapposizione alla Sinistra - un proprio effettivo retroterra socio-culturale. Quei valori che per l'appunto avrebbero dovuto essere i suoi - il merito, la competizione, la rottura delle barriere corporative, il senso e l'autorità dello Stato, la sana amministrazione delle finanze e dei conti pubblici, la difesa della legalità, la cura per l'identità e per il passato nazionali, per la serietà degli studi - ma che invece essa ha finito per disperdere al vento o per regalare quasi tutti alla sinistra. Così da trovarsi oggi, tra una rissa interna e l'altra, ormai avviata verso una meritata irrilevanza nel più scettico disinteresse degli italiani.

Ps: per anni, ogni qualvolta mi è capitato di muovere una qualunque critica al Pdl mi è arrivata puntuale una sesquipedale e sdegnata messa a punto-smentita da parte dei coordinatori del partito, Bondi, La Russa e Verdini. Immagino che questa volta, però, decidano di risparmiarcela: a me e ai lettori del Corriere .

Ernesto Galli della Loggia

domenica 4 novembre 2012

Il Paese in ostaggio


Un ottimo editoriale di S. Romano. Da qui.


Il Paese in ostaggio
Quando abbiamo appreso che Silvio Berlusconi avrebbe fatto un passo indietro e lasciato ad altri la guida del suo partito, ho pensato che nessuno dei suoi futuri biografi, indipendentemente dal loro giudizio politico, avrebbe potuto ignorare la sua capacità di entrare e uscire al momento giusto. Il suo messaggio televisivo del 26 gennaio 1994 ha riempito un vuoto e suscitato molte speranze in una parte dei suoi connazionali. Il suo «passo indietro» di qualche giorno fa sembrava avere tolto di mezzo una ipoteca e un alibi. Il suo partito avrebbe smesso di aspettare, inerte, la decisione del padre-padrone e sarebbe diventato infine «maggiorenne», vale a dire costretto a scegliere un leader, un programma, una strategia elettorale. I partiti dell'opposizione avrebbero dovuto smetterla di fare della lotta contro Berlusconi una delle principali ragioni della loro esistenza. Avrebbero dovuto chiedere voti con un programma credibile e spiegare al Paese con quali alleati lo avrebbero realizzato. Il dibattito elettorale sarebbe stato meno fazioso, il confronto fra diversi programmi più utile al Paese e al suo futuro, la risposta dell'elettore meno condizionata dall'ingombrante presenza di un uomo che ha molto contribuito a dividere l'Italia in due opposte tifoserie. E i giornali non sarebbero stati costretti a riempire le loro pagine di accuse reciproche su temi che non hanno alcun rapporto con la realtà economica e sociale del Paese.

Con il suo intervento di ieri Berlusconi rende questa prospettiva molto più difficile. L'ex presidente del Consiglio ha confermato il suo messaggio precedente, ma lo ha contraddetto con una perorazione per se stesso che è parsa in molti momenti un regolamento di conti. Ha rivendicato i meriti della politica finanziaria del suo governo dopo lo scoppio della crisi. Ha accusato Germania e Francia, tra le righe, di avere complottato contro la sua persona. Ha implicitamente rimproverato al governo Monti di non avere mantenuto un impegno preso al momento della sua formazione (la riforma della Costituzione) e, più esplicitamente, di avere fatto la politica imposta da Berlino. Ha prospettato soluzioni demagogiche sulla fiscalità e sulla casa che sembrano essere la versione forbita delle filippiche di Beppe Grillo. Ha messo in discussione l'obiettività della Corte costituzionale e le funzioni della presidenza della Repubblica. Ha dipinto un quadro troppo ottimistico del Paese nel 2011 e troppo pessimistico nel 2012. Ha trasformato una questione personale in una questione nazionale e ha presentato il proprio caso come la prova della ingovernabilità del Paese. Ha dimostrato di avere un ego gigantesco, impermeabile a qualsiasi altra considerazione e preoccupazione. Si è chiesto ad esempio quale sarà domani la reazione dei mercati e degli investitori quando giungeranno alla conclusione che il leader del partito di maggioranza (così viene ancora percepito) ha sconfessato il governo dei tecnici, dichiarato guerra alle istituzioni e delineato un programma che riporterebbe il Paese alle condizioni del novembre 2011? Resta da capire come Berlusconi, dopo avere confermato il suo «passo indietro», intenda agire nei prossimi mesi per dare un seguito pratico alle sue analisi e battersi, come ha promesso, per la riforma della giustizia. Nessuno può negargli il diritto di fare le sue battaglie. Ma il suo partito, se desidera essere una forza politica nazionale, deve prendere le distanze dal fondatore. Se riuscirà a sbarazzarsi del «padre» potrà aspirare alla conquista di una parte del voto moderato. Se continuerà a essere il partito di Berlusconi, verrà inevitabilmente considerato uno strumento del suo conflitto d'interessi.

Sergio Romano

venerdì 5 ottobre 2012

Pat(tumiera)



A stasera.

Cliccate per ingrandire.

lunedì 24 settembre 2012

L'ingordigia dei mediocri


Gian Antonio Stella ci regala questo punto di vista, dal Corriere del 21/09.


L'ingordigia dei mediocri
Chi la eccita, l'antipolitica? Questa è la domanda che devono porsi quanti portano la responsabilità di avere selezionato una classe dirigente nazionale, regionale e locale che magari è fatta anche di tante persone perbene ma certo trabocca di figuri impresentabili. Figuri troppo spesso selezionati proprio per questo: perché ambiziosi, mediocri, ingordi, disposti a tutto.
Lo disse anni fa Giuliano Ferrara in un dibattito con Piercamillo Davigo: «Devi essere ricattabile, per fare politica. Devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti». Una diagnosi tecnica, non «moralista». Ma dura. E destinata a trovare giorno dopo giorno, purtroppo, nuove conferme.
Ci è stato spiegato, per anni, che i controlli erano inutili, che facevano perdere tempo, che ostacolavano l'efficienza e la rapidità delle scelte. Ci è stato detto che bastavano i controlli «dopo». Magari a campione. Magari a sorteggio. Magari con un progressivo svuotamento delle pene perché ci sarebbe stata comunque «la sanzione politica, morale, elettorale». I risultati sono lì, sotto gli occhi di tutti. E ricordare ai cittadini che devono «avere fiducia nella politica» è solo uno stanco esercizio retorico. Solo la politica può salvare la politica. Cambiando tutto, però.
Carlo Taormina, che è stato deputato e sottosegretario (sia pure part time col mestiere di avvocato) dice che la Regione Lazio «è un porcile». Alla larga dal qualunquismo. È vero però che mentre nel cuore dello Stato, da anni sotto i riflettori delle polemiche sui costi della politica, qualcosa ha cominciato lentamente a cambiare, in tante Regioni e non solo nel Lazio (troppo comodo, scaricare tutto lì...) troppa gente ha pensato di essere al riparo dalle ondate, fluttuanti, d'indignazione popolare. Come se tutto, crisi o non crisi, potesse continuare come prima.
I cittadini sono sconcertati dai casi trasversali di malaffare? Ogni indagato resta sempre inchiodato lì, senza mollare l'osso mai. Si chiedono perché spendere 36 milioni di euro per l'aeroporto di Aosta? I lavori vanno avanti, anche se non decolla un volo e forse mai decollerà. Non capiscono perché il Molise abbia lo sproposito di 30 deputati regionali divisi in 17 gruppi di cui 10 monogruppi? Dopo le elezioni potrebbe averne 32. Sono furibondi con le dinastie politiche ereditarie tipo quella di Bossi? Sparito il Trota e messo in ombra il figlio di Di Pietro, entra «Toti» Lombardo, candidato alle prossime regionali siciliane dal papà Raffaele che l'altra volta aveva piazzato il fratello.
Per non dire della Calabria. Dove, mentre i disoccupati si arrampicano sui tralicci, sono stati appena spesi 140 mila euro per un libretto dal titolo «Il senso delle scelte compiute» che osanna in 65 foto e 125 pagine estasiate il presidente del consiglio regionale Franco Talarico. Il quale ha in dote spese di rappresentanza per 700 mila euro, sei volte più dell'intera assemblea dell'Emilia Romagna, che ha il doppio di abitanti e il quadruplo del Pil.
Per questo sono in tanti ad assistere con apprensione allo scandalo che squassa la Regione Lazio. Perché, sotto le sue macerie di centurioni, Batman, bulli e balli mascherati con scrofe e maiali, potrebbero restare sepolte anche le stizzite rivendicazioni di autonomia di tante Regioni amministrate in questi anni in modo sconcertante. Che potrebbero, finalmente, essere chiamate a rispondere dei conti.
GIAN ANTONIO STELLA

venerdì 7 settembre 2012

Il paesaggio preso a schiaffi



Ecco un notevole articolo dal Corriere.
Gli orrori paesaggistici e l'incuria, il menefreghismo.
Quello che combattiamo. Noi, gli altri non si sa.



Trascorrere qualche giorno in Calabria - dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola - significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.
Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro - questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana - per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e - perché no? - una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque).
D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace - fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti - se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.
Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.
Ernesto Galli della Loggia
27 agosto 2012 | 13:14

domenica 26 agosto 2012

Evoluzione (!) della Lega


La Lega non ci annoia mai, dobbiamo dirlo.
Vi lasciamo con questo interessante articolo, che parla dell'evoluzione (sempre che sia possibile) dei nostri amici secessionisti, ma seduti ben bene nelle poltrone di Roma da un bel pezzo.

Corriere del Veneto, 22/08/2012

Lega 2.0, se anche il Dio Po segue Bossi tra i fuori ruolo
Erano 16 anni fa, mica duecento. Eppure sembra preistoria leghista, precipitata nel passato remoto dell’armamentario dei riti di partito dalla vertiginosa accelerazione degli ultimi mesi. Quel giorno del settembre 1996, quando il fiuto ferino di Umberto Bossi inventò la prima cerimonia pagana lunga tre giorni dal Monviso a Venezia, sbigottiti funzionari degli Interni dovettero ammettere che centotrentamila (130mila!) persone di nazionalità italiana erano accorse lungo l’asta del Po, rivestito per l’occasione di divina sacralità, al richiamo separatista del Capo. Stavano su quella riva, simbolico confine tra una Padania sempre più insofferente e la romanità, e guardavano dall’altra parte con aria di sfida, chiedendo nientemeno che l’indipendenza.
Raccontano le cronache dell’epoca, pure loro sbigottite, che persino l’avvocato Gianni Agnelli, uomo di un altro Nord ma divorato da insaziabile curiosità per il nuovo, si alzò in volo da Torino con il suo elicottero personale per sorvolare quell’inaudito serpentone di militanti, che nel frattempo, lì sotto, si erano persuasi di essere a un passo da un traguardo epocale. La Secessione. Poi corretta in Devolution. Quindi rivisitata in Autonomia. Infine riformata in Federalismo (per tutti, non soltanto per il Nord), sulla cui sorte ultima si hanno ben poche certezze. Adesso che tutti sappiamo com’è andata, non può sorprendere che nella Lega 2.0, quella che ha acclamato Bobo Maroni segretario e gentilmente accomodato Bossi nel consesso dei padri nobili fuori ruolo, anche il vigoroso Dio Po sia destinato al pensionamento.
Con tutto il suo equipaggiamento di ampolle, acque sacre - dal 2008 i leghisti nostrani, con orgogliosa rivendicazione identitaria, ci avevano aggiunto quelle del Piave, prelevate per l’occasione dalla sorgente alle pendici del Peralba -, giuramenti e riti celtici vari. Non ci sarà il raduno finale di Venezia, in riva degli Schiavoni, dove un tempo si giurava sulla Padania e, più di recente, quell’inarrestabile tribuno di Giancarlo Gentilini pronunciava la memorabile orazione contro clandestini, nomadi, zingari e avventori dei phone center («che vadano a pisciare nelle loro moschee»), coronata con la medaglia al valor leghista di una condanna a 4mila euro di multa per istigazione all’odio razziale ed etnico. I popoli padani lasciano l’antica capitale Serenissima anche perché, obiettivamente, quest’anno ci sarebbe poco da festeggiare. Su Venezia sventola la bandiera di Lucia Massarotto, la «pasionaria» del Tricolore che per anni ha sfidato il dileggio e i fischi dei leghisti, a cominciare proprio da Bossi, pur di manifestare il suo civile dissenso esponendo il vessillo italiano: l’hanno pure sfrattata dalla casa in riva Sette Martiri, ma lei è ancora là.
Alessandro Zuin
22 agosto 2012

venerdì 6 luglio 2012

Commissione Bilancio: verbale con proposte


Ecco, per chi non crede a quei negletti delle minoranze, le proposte fatte in Commissione, di fronte ad un Sindaco molto dubbioso, ad un Matteazzi interessato e ad un Meneghello che non siamo sicuri abbia ascoltato quello che abbiamo detto... tant'è che poi il bilancio è passato con succosi aumenti.


Verbale riunione commissione consigliare n. 1 

Presenti
(Pres) Bonato Giovanni, Matteazzi Giuliano, Sudino Marco, Dal Monte Mario, Mercedi Emanuele, Meneghello Stefano, Sindaco.

(Introduzione da parte del Presidente)DAL MONTE: ho una proposta politica, ma prima faccio una premessa. A parte le schermaglie di ieri sera, ci sono 2 aspetti. Nella forma avete massacrato la maggioranza e la minoranza. 15 gg fa avete approvato gli schemi e la relazione: la relazione è stata completata sabato scorso. Nella sostanza di avete impedito di fare proposte. Ma faccio lo stesso una proposta seria e collaborativi. Ci sono 610mila euro per far quadrare i conti: avete 200mila euro di avanzo di amministrazione, avete gli oneri di urbanizzazione (…). Guardando le ultime novità su Merkel e sull’euro sulle elezioni a ottobre. Quando le tasse son messe, son messe e basta. Ma c’è tempo fino a settembre. Se si va ad elezioni ad ottobre, è buon senso procrastinare le aliquote a settembre. Nel frattempo revisionare tutti i contratti. Per esempio i cellulari: le poste danno un cellulare a 34 euro al mese, così la scuola ci fa tutte le telefonate che vuole agli insegnanti, ad esempio.
Rivedere tutte le convenzioni. Acqua, con bollette altissime, sono i tubi che perdono? Se perdono prima del contatore il problema è di acque del chiampo, se è dopo siamo assicurati. ICA, Equitalia, Servizi informatici, un po’ di qua e un po’ di là si recuperano altri 100mila euro. Aver confermato le spese (come avete detto voi) non è politicamente più sostenibile.
MENEGHELLO: sono i servizi che sono gli stessi.
DAL MONTE: facciamo un bilancio provvisorio, un lavoro di 3 mesi e vediamo a settembre come siamo messi. Non è impossibile risparmiare! Sarebbe un discorso che ci distingue da tutti gli altri comuni!
MENEGHELLO: sono proposte apprezzabili. Tante cose le abbiamo già fatte: l’acqua l’abbiamo già fatto perché è di sicuro una perdita prima del contatore (Ndr e continuiamo a pagare di più? Mah…). Con l’appalto pulizie abbiamo risparmiato il 30%. Informatica: da sempre ho detto che la ditta chiede troppo. La buona volontà è una cosa, la pratica realizzarla è un’altra cosa. Tutti i capitali, il personale, sono state tagliate tutte le spese.
BONATO: non si può partire con le opere senza bilancio
DAL MONTE: si deve stimolare gli operatori, questo darebbe risparmio.
MENEGHELLO: al posto di giovedì scorso è una proposta seria, non come quella di 1 euro a libro.
BONATO: le spese della polisportiva non sono state ricadute sugli utenti
DAL MONTE: se fate i risparmi la minoranza vi viene dietro, se non lo fate, faremo opposizione.
MENEGHELLO: tutto è migliorabile, ma il bilancio è fatto di risparmi e le tasse sono contenute
MERCEDI: qual è l’opinione del sindaco sulla proposta?
SINDACO: tutte le simulazioni Irpef e IMU sono state fatte in grande
DAL MONTE: mettete a bilancio l’evasione e le segnalazioni della Guardia di finanza, così abbassate le tasse.
MATTEAZZI: è fattibile andare a settembre?
DAL MONTE: il discorso dell’assemblea in concomitanza con il Consiglio comunale sul bilancio nasce dai ritardi nella consegna delle carte.
MENEGHELLO: è una squadra, tutti gli assessori fanno tutto di tutto, il sindaco guarda la strada, tutti danno una mano.
MERCEDI: questo discorso mi sembra un po’ insulso, intendevo che volevo sentire l’opinione del sindaco, perché ha una diversa personalità e visione delle cose rispetto al vicesindaco.
DAL MONTE: discorso delle opere pubbliche: come sempre anche per i miei mandati, sono un libro dei sogni. Perché l’ufficio tecnico comunale e l’assessore Beltrame non mi hanno risposto nella provenienza delle fonti di finanziamento? Doveva saperlo! Hanno messo la firma! Le opere pubbliche le dovevate presentare prima, sono tutto, così la gente vedeva.
SINDACO: la risposta di Meneghello non era secca di chiusura. Le discussioni sono sempre possibili
DAL MONTE: se ci ripensate, noi delle minoranze non diremo che avete fatto una brutta figura
SINDACO: faremo una valutazione insieme della cosa
DAL MONTE: in 4 anni non abbiamo fatto rumore e volantini, ma di fronte alle tasse…! La cosa diviene importante e delicata. I vantaggi nell'immediato sono enormi per tutti.

18.17 termine commissione.

domenica 24 giugno 2012

W le tasse!


Vi aspettiamo Mercoledì 27 Giugno 2012 alle ore 20.45 al Centro di Pubblica Utilità di Vò, sala D per discutere, conti alla mano, di come Ceron e la sua banda triplicheranno l'IRPEF e aumenteranno l'IMU senza prima tagliare le spese inutili.


domenica 17 giugno 2012

Se le illusioni...


Giovanni Sartori ci delizia con questo articolo, dal Corriere.



Se le illusioni volano in Rete

Mi sono sempre chiesto se Berlusconi leggesse qualcosa. Finalmente ho scoperto che studia i comizi di Grillo (cito Verderami sul Corriere di sabato scorso). Studia nel senso che passa almeno un paio di ore al giorno a visionare i suoi filmati e a leggere testi del suo blog. A detta di Verderami, il Cavaliere lo ritiene «la sua brutta copia». A me non sembra, ma non importa. Importa che Berlusconi si proponga di surclassarlo e di batterlo al suo gioco. E se così fosse prenoto sin d'ora un posto in prima fila per lo spettacolo.
Berlusconi ha capito per primo la forza politica della televisione, e difatti se ne è anche impadronito. Grillo ha capito a sua volta la forza dei blog, e piano piano ha fatto breccia usando questa nuova tecnologia «povera». Ma Berlusconi è arrivato al governo, e ha governato perché ha anche costruito un partito che per quanto «liquido» e mai denominato tale, resta pur sempre un partito, mentre Grillo non costruisce niente.Dichiara a Gian Antonio Stella (su Sette dell'1 giugno): «Diventi un partito quando discuti della struttura. Non va bene. Bisogna discutere all'aperto, con i cittadini. Facciamo l'iperdemocrazia... e il Parlamento deve avere l'obbligo di discutere le leggi popolari che vengono presentate». Presentate da chi? Formulate da chi? In attesa di saperlo, il discorso poggia sul vuoto, poggia pressoché sul nulla.
Però di quel nulla Grillo è il padre-padrone. Per questo rispetto, Grillo è come Bossi, o persino più padre-padrone di Bossi (pre ictus, si intende). Il recentissimo caso di Parma è esemplare. Il nuovo sindaco è un grillino, Federico Pizzarotti. Potrà essere un bravo sindaco che farà, imparerà a fare, il mestiere «pulitamente». Ma anche a lui occorre uno staff . Così appena eletto si propone di nominare Valentino Tavolazzi direttore generale del Comune. La persona è specchiata e, a quanto pare, stimata. Ma il povero Tavolazzi si è permesso, in passato, di esprimere qualche blanda critica su Grillo. E così niente da fare: Grillo pone il suo veto e fa sapere al suo sindaco che il movimento delle Cinque Stelle lo avrebbe sconfessato. Pizzarotti ha dovuto trovare un pretesto per obbedire. Ma l'episodio è, nel suo piccolo, gravissimo.
Il grillismo, nella predicazione del suo capo, è un insieme di critiche quasi sempre ovvie e anche fondate, e di proposte che sono invece troppo spesso o sballate o imbecilli o soltanto demagogiche.
Poco male, dicevo a me stesso. Di una nuova generazione «pulita», anche se impreparata, il Paese ha molto bisogno. E il grillismo, così come ha già fatto il leghismo, potrà fornire soprattutto a livello di Comuni medio-piccoli bravi sindaci e bravi amministratori. Vedi il leghista Flavio Tosi, sindaco di Verona. Ma né Bossi né Grillo possono allevare una classe di governo. Loro sono i primi a non avere nessunissima idea delle complessità nelle quali i governi dell'Occidente si trovano oggi invischiati. Cacciare i politici «ladri», questo sì; ma portare al potere centrale brave persone che però non sanno nulla e sui quali Grillo si propone anche di comandare, questo no. So che così dicendo mi metto fuori gioco. Pazienza. Lo sono già per meriti dì età. 
15 giugno 2012

Il culto dello sportello



Questo emblematico articolo a firma del grande Prof. Ugo Bardi, ci fa notare l'assurdo nel vivere quotidiano, o, in parole più tecniche, i rendimenti decrescenti della complessità, applicabili a tutti gli uffici pubblici, comune compreso.


L'edificio della motorizzazione civile sorge a una certa distanza dalla città. E' isolato nella piana; una specie di castello di Dracula trapiantato direttamente dalla Transilvania. Ci arrivo con la lettera che mi hanno spedito in cui mi minacciano di varie orrende pene e sanzioni se non gli fornisco prova che sono in possesso del libretto di circolazione della mia vecchia 500, datata 1965.

Nello stanzone dopo l'ingresso c'è una fila di sportelli, ognuno con la sua coda. Ci sono vari cartelli che descrivono cosa si fa a ciascuno sportello, ma nessuno che preveda l'esibizione di un vecchio libretto di circolazione. Non esiste un ufficio informazioni - tanto vale che mi faccia la coda di uno degli sportelli a caso. Scelgo quello dove si rinnova la patente. Arrivato finalmente allo sportello, l'impiegato mi dice che quello non è il posto giusto (grazie, lo sapevo!). Per fortuna, me ne è capitato uno gentile che fa una piccola ricerca chiedendo ai colleghi e poi mi dice di presentarmi all'ufficio xx al primo piano.

L'ufficio xx è attrezzato in modo interessante. Entrando dalla porta, ti trovi di fronte a una scrivania sopraelevata su un gradino in legno, che serve anche da barriera per impedire che il malcapitato utente violi il sacro spazio riservato agli impiegati. Mi fanno aspettare un po', per ribadire ancora di più la mia posizione di misero questuante. Poi arriva una signora che si siede alla scrivania sopraelevata, torreggiando su di me un po' come succedeva davanti ai banchi delle vecchie macellerie.

Le allungo il libretto della mia 500. Lei lo guarda e mi dice "mi deve fare una fotocopia". Mi azzardo a dire, flebilmente, "se fosse così gentile da......" Scuote la testa senza lasciarmi scampo. "C'è la macchina fotocopiatrice a pagamento al piano terra."

Al piano terra, giro a lungo per cercare di localizzare la fotocopiatrice, per la quale non sembra esistere nessuna indicazione. Finalmente, noto un tizio con dei fogli in mano che esce moccolando da una stanza. Dentro quella stanza, c'è una fotocopiatrice che sembra un reperto archeologico risalente ai palafitticoli che abitavano la piana in epoche remote. Mi provo ad utilizzarla e scopro subito il perché dei moccoli dell'utente precedente. Se metti 20 centesimi nella fessura apposita, la macchina emette alcuni pietosi rantoli ma non fa nessuna fotocopia. 

Mi dedico per qualche minuto alla mia dose di moccoli, poi domando a un tale che passa di li'. Lui mi indirizza al bar, un chilometro più avanti, dove hanno una fotocopiatrice. Riprendo la macchina e mi ci fiondo - tanto vale a questo punto farsi un caffè. Mentre sorseggio, mi domando se il gestore del bar non si dedichi per caso al sabotaggio della fotocopiatrice della motorizzazione per lucrare sulle fotocopie. Se è così, oggi ha esagerato con i sabotaggi. Non funziona nemmeno la fotocopiatrice del bar. 

Dopo ulteriori moccoli - ritorno alla fotocopiatrice paleolitica della motorizzazione. Lì, ci trovo altra gente che ha messo i 20 centesimi e stanno tutti moccolando in coro. Apro la maledetta macchina, tiro fuori i rulli, li libero dei pezzi di carta semi-bruciacchiati che li bloccavano. Richiudo il tutto, invoco brevemente gli Dei dei palafitticoli, premo un po' di bottoni a caso e - miracolo - funziona. Ricevo anche le lodi dei presenti per la mia azione di riparazione!

Porto la fotocopia all'ufficio al primo piano dove la tizia mi fa aspettare un altro po', poi arriva a torreggiare ancora sopra di me. Mi guarda forse un po' sorpresa che io sia sopravvissuto all'ordalia. Timbra qualcosa sul foglio ed è tutto finito. Una mattinata intera persa per una cosa che si poteva fare in 30 secondi via fax o via mail.

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Questa storia di una mattinata di ordinaria follia all'Ufficio della Motorizzazione civile è avvenuta l'anno scorso. E' una storia che direi tipica del "culto dello sportello" che ci sta affliggendo. Vi potrei raccontare altre storie di mattinate e mattinate perse stando in coda per avere udienza da un tale (o una tala) dietro uno sportello che ti chiede poi cose che dovrebbe già sapere (tipo il tuo codice fiscale) e che ti fa riempire moduli che potresti riempire tranquillamente a casa tua e mandare per posta.  (*)

Il tempo e le risorse perse in questa impresa assurda sono cose che non so quantificare; ma sono sicuramente ben oltre il ragionevole. Sembrerebbe che questo "culto dello sportello" sia un risultato necessario di quello che Joseph Tainter chiamava "i rendimenti decrescenti della complessità" che alla fine genera il collasso delle società umane. Se è così, è un'ulteriore indicazione di come ci stiamo distruggendo con le nostre stesse mani.




* Nonostante qualche lodevole tentativo da parte dei vari governi di semplificare la burocrazia, non sembra che si siano ottenuti risultati visibili. L'avvento di internet ha, se possibile, peggiorato le cose. Provate, per esempio, a cercare di far qualcosa con il sito dell'INPS - la procedura di identificazione è di una complessità spaventosa: più che di un ufficio al servizio del cittadino sembra degna del NORAD (il comando di difesa strategica degli Stati Uniti). Provateci con il sito dell'Agenzia delle Entrate, e vedrete che anche quello richiede una procedura di identificazione pazzesca, per poi spesso dirvi dopo un gran numero di passaggi che quello di cui avete bisogno lo potete fare soltanto - indovinate! - allo sportello. 

Vi faccio un esempio di una cosa che mi è capitata negli ultimi giorni. Per richiedere un duplicato di una tessera sanitaria on line, dovete fare una procedura di identificazione con l'agenzia delle entrate che sembra inventata da un comitato messo su dalla CIA e dall'FBI insieme. Alla fine vi prende lo scoramento e rinunciate. Se invece andate allo sportello della ASL, l'impiegata annoiatissima non vi chiede nemmeno chi siete. Preme un bottone e vi dice: "ti arriva a casa entro qualche giorno". Facilissimo, ma ha richiesto un'oretta di coda prima di arrivare allo sportello.

Tutto questo è un'azione di sabotaggio diretta appositamente contro l'uso di internet da parte del cittadino? Sarò complottista, ma ho qualche sospetto. 

mercoledì 13 giugno 2012

Siamo alla frutta (per chi non se ne fosse accorto)


Buona lettura.


Giochi pericolosi e calcoli miopi

La metafora del ballo nel salone delle feste del Titanic è logora, ma non so trovarne una più adatta a rappresentare il comportamento dei nostri partiti in questo momento. E sto parlando dei partiti «responsabili», di quelli che appoggiano il governo Monti. Degli altri, di quelli che lo contrastano in Parlamento o lo criticano dal di fuori, lucrando sul disagio e la disaffezione dei cittadini, non vale la pena di parlare e il giudizio più indulgente che si può dare di loro è che non hanno capito nulla della crisi drammatica in cui versiamo: se avessero capito, il giudizio dovrebbe essere molto più severo. Ma torniamo ai partiti «responsabili»: siamo sicuri che almeno loro abbiano un'idea realistica della gravità della situazione, della possibilità di una catastrofe imminente, di un collasso dell'euro e di una depressione economica mondiale? Da come si stanno comportando, non si direbbe.
Non mi riferisco agli episodi di cattiva politica appena denunciati dalle cronache, dal «salvataggio» del senatore De Gregorio alle discutibili nomine delle autorità indipendenti: episodi rivelatori, che rafforzano il disprezzo dei cittadini ma non incidono più di tanto sul giudizio che i mercati o le autorità sovranazionali possono dare del nostro Paese. Mi riferisco soprattutto all'insofferenza crescente che Pdl e Pd manifestano verso il sostegno al governo Monti. Per il Pdl l'ha denunciata con ammirevole chiarezza Schifani, per il Pd Bersani si è affrettato a smentire un'incauta (?) dichiarazione del responsabile per l'economia del suo partito: è chiaro però che il sostegno al governo, per entrambi i partiti, non sta scritto nelle Tavole della Legge ma costituisce un'opzione revocabile, soggetta a calcoli di opportunità politico-elettorale. Ma perché poi, un sostegno di legislatura, dovrebbe stare scritto nelle Tavole della Legge? Se il governo Monti, a giudizio di una parte significativa dei partiti che lo sostengono, non affronta in modo adeguato la situazione di emergenza in cui ci troviamo, perché trascinare questa situazione sino alla prossima primavera? Forse che gli spagnoli, pochi mesi fa, non hanno affrontato elezioni e cambio di governo senza conseguenze traumatiche?
Proprio il confronto con la Spagna ci può aiutare. Anzitutto la situazione internazionale era allora meno instabile e i risultati delle elezioni meno preoccupanti: in un sistema istituzionale così bene assestato com'è quello spagnolo, sicuramente avrebbe vinto un partito «ragionevole», che avrebbe seguito le indicazioni delle istituzioni europee e ascoltato con attenzione i messaggi dei mercati. Al di là dei pericoli che incombono sull'eurozona, in Italia neppure sappiamo con quale legge elettorale andremo a votare e quali partiti e coalizioni si presenteranno, con il rischio sempre più forte di un successo straordinario di partiti o movimenti «irragionevoli». Ci sarebbe però una certezza: che Mario Monti, sfiduciato, non sarebbe più presidente del Consiglio.
In un momento in cui tutte le decisioni cruciali si prendono in Europa o a livello internazionale, privarsi dell'unica risorsa che abbiamo non sarebbe solo un errore - rovescio intenzionalmente la famosa battuta di Talleyrand - sarebbe un crimine: chi possiamo mandare a trattare con la Merkel, o con Obama, o con Hollande tra i potenziali primi ministri che uscirebbero da elezioni anticipate? Ma stiamo scherzando?
Purtroppo non stiamo scherzando e vorrei essere chiaro in proposito. Vedo anch'io le difficoltà di questo governo, la sua fatica a prendere decisioni che incidano in profondità sui guasti del nostro Paese. È un governo nato debole e compromissorio - non credo che Monti, lasciato libero di decidere, si sarebbe preso tutti i ministri e sottosegretari che ha dovuto accettare - e ora, dopo una brillante partenza, è semiparalizzato dai conflitti della sua maggioranza e dall'inadeguatezza di alcuni suoi ministri. Potrebbe fare di più? Forse, e le scelte appena compiute sulla Rai dimostrano che uno spazio esiste: i commentatori indipendenti, anche se talora possono apparire ingenerosi e impolitici, è bene che continuino a ricordare lo scostamento che esiste tra quanto si fa e quanto si dovrebbe fare. Ma per colmare questo spazio, per piegare i partiti e gli interessi, Monti dovrebbe minacciarli con la bomba atomica delle sue dimissioni, se essi frappongono ostacoli al processo di riforma. Sarebbe una minaccia credibile? Ne dubito.
I partiti, l'abbiamo appena notato, la bomba atomica la stanno maneggiando con noncuranza loro stessi e anche i più cauti tra i loro leader scommettono sul fatto che Monti e Napolitano sono troppo responsabili per innescare quell'ordigno infernale allo scopo di spuntare riforme che i partiti non gradiscono. E dunque tirano la corda, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi.
11 giugno 2012 | 10:53

martedì 24 aprile 2012

L'autista-Bancomat e i segreti del Trota


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MILANO - «L'autista del Trota confessa: "Lo pasturavo io"», ammicca un twitterista nel gergo dei pescatori. Sintesi feroce, ma ci sta. Manco il tempo che l'ormai ex aspirante «delfino» di Umberto Bossi, sotto la tempesta, annunciasse l'addio al seggio regionale e gli cascavano addosso altre tegole. Le testimonianze imbarazzanti di due ex autisti.
Uno di questi racconta a Oggi (corredando le rivelazioni con dei video) che forniva a Renzo, per le spese personali, soldi della Lega. Cioè, visti i rimborsi elettorali, dei cittadini italiani: «Praticamente ero il suo Bancomat». Sarà dura, adesso, per il figlio prediletto dell'anziano e ammaccato leader leghista. In questi anni, par di capire, si era abituato bene. Prendeva, come consigliere della Regione Lombardia dove era stato eletto due anni fa nella scia di una campagna elettorale in cui il cognome che portava era un marchio che voleva dire fiducia («se lo candida il papà...») 150.660 euro netti l'anno. Vale a dire quanto il governatore del Maine Paul LePage (52.801 lordi), quello del Colorado John Hickenlooper (67.888 lordi) e quello dell'Arkansas Mike Beebe (65.890 lordi) messi insieme. Il triplo abbondante di quanto guadagna (66.000 lordi) un deputato all'assemblea della California, Stato che se fosse indipendente avrebbe il settimo Pil mondiale.

Sarà dura senza quella spettacolare prebenda e senza tutto il contorno al quale il principino della Real Casa Senaturia era stato abituato. Pranzi, cene, inviti, ragazze vistose, auto blu, chauffeur. Lo si capisce guardando la naturalezza con cui, nei video girati con il telefonino da quello che è stato per alcuni mesi il suo autista, Alessandro Marmello, video messi online da Oggi che martedì mattina pubblica l'intervista esclusiva, afferra le banconote da 50 euro come fossero il resto di un caffè alla cassa di un bar.
Il racconto dell'autista, anticipato dal settimanale, getta sale sulle ferite sanguinanti di tanti leghisti duri e puri che in questi anni avevano digerito di tutto. La prima mazzetta da 200 milioni di Carlo Sama al tesoriere-idraulico Alessandro Patelli, imbarazzante per chi come il Senatur aveva invitato Antonio Di Pietro e il pool Mani Pulite ad andare «avanti a tutta manetta». Poi le storiacce dell'investimento in un villaggio turistico croato. Poi il crac della «banca padana», quella Credieuronord sulla quale gli ispettori della Banca d'Italia stilarono un rapporto durissimo («incoerenze nella politica creditizia nonché labilità dei crediti»; «ridotta cultura dei controlli»; «scarsa cura prestata alle evidenze sui grandi rischi»; «ripetuti sconfinamenti autorizzati dal Capo dell'esecutivo» e «acriticamente ratificati dall'organo collegiale») ricordando che buona parte del capitale era evaporato per finanziare la società (fallita) Bingo.Net che aveva tra i soci leghisti di primo piano come Enrico Cavaliere (già presidente del consiglio del Veneto) e Maurizio Balocchi, il tesoriere del Carroccio, sottosegretario e addirittura (incredibile, ma vero) membro del consiglio di amministrazione della banca. Poi i ministri che prendevano come consulenti per le carceri dei grossisti di pesce congelato. Poi la notizia di tanti leghisti capaci di accumulare poltrone su poltrone, di assumere reciprocamente l'uno la moglie dell'altro, di usare l'auto blu con tanta strafottenza da finire sotto inchiesta...
Tutto, avevano digerito i militanti legati al sogno della Padania, del prato di Pontida (dove una mano ignota ha cambiato in questi giorni la scritta «padroni in casa nostra» con «ladroni in casa nostra») del mito celtico, del sole delle Alpi, del rito dell'ampolla. Sempre convinti che certo, nessuno è perfetto, ma Bossi! D'accordo, aveva fatto assumere da Francesco Speroni e Matteo Salvini, come portaborse all'Europarlamento, suo fratello Franco e suo figlio Riccardo, fatti rientrare solo dopo la denuncia del Corriere , ma come si poteva mettere in discussione Bossi? Ed ecco quel sale sulle ferite gettato oggi dall'autista: «Non voglio continuare a passare soldi al figlio di Umberto Bossi in questo modo: è denaro contante che ritiro dalle casse della Lega a mio nome, sotto la mia responsabilità. Lui incassa e non fa una piega, se lo mette in tasca come fosse la cosa più naturale del mondo».
Tutto filmato col cellulare: «Poteva essere la farmacia, ristoranti, la benzina per la sua auto, spese varie, cose così. Insomma, quando avevo finito la scorta di denaro andavo in cassa, firmavo e ritiravo. Mi è capitato anche di dover fare il pieno di benzina pure per la sua auto privata. Il pieno in quei casi dovevo farlo con i soldi che prelevavo in cassa per le spese della vettura di servizio. La situazione stava diventando preoccupante e ho cominciato a chiedermi se davvero potevo usare il denaro della Lega per le spese personali di Renzo Bossi».
«L'ho fatto presente a Belsito, spiegandogli che avevo pensato addirittura di dimettermi», continua Marmello, «Lui non mi ha dato nessuna spiegazione chiara. Io stavo prelevando soldi che ufficialmente erano destinati alle spese per l'auto di servizio ed eventualmente per le mie esigenze di autista e invece mi trovavo a passarne una parte a lui, per fare fronte anche ai suoi bisogni personali. Erano spese testimoniate da scontrini che spesso non riguardavano il mio lavoro. Non so se lui avesse diritto a quei soldi: tanti o pochi che fossero, perché dovevo ritirarli io? Ho cominciato ad avere paura di poter essere coinvolto in conti e in faccende che non mi riguardavano, addirittura di sperpero di denaro pubblico, dal momento che i soldi che prelevavo erano quelli che ritengo fossero ufficialmente destinati al partito per fare politica. Soldi pubblici».
Poco prima che il web fosse allagato dai commenti più salaci, Renzo aveva annunciato le dimissioni da consigliere regionale. Capiamoci, non aveva altra scelta se non quella di togliersi di dosso quanto più possibile i riflettori. Per allentare le pressioni su di sé, sul padre, sulla madre, sui fratelli con i quali, nei giorni del delirio d'amore leghista, aveva condiviso perfino lo stupefacente trionfo nella «classifica dei campioni dello sport più amati» pubblicata dall'adorante Padania dove alle spalle di Alex del Piero, Roberto Baggio o Fausto Coppi c'erano loro: «Bossi Sirio Eridanio voti 591; Bossi Renzo voti 588; Bossi Roberto Libertà voti 583». Davanti a mostri sacri come il libero del Milan Franco Baresi (553), il re delle volate Mario Cipollini (492) e addirittura Primo Carnera (437) Gustavo Thoeni, staccato a 433 miserabili punti.
L'annuncio: «In questo momento di difficoltà, senza che nessuno me l'abbia chiesto faccio un passo indietro e mi dimetto da consigliere regionale». Oddio, non è che fosse proprio vero se i leghisti di Brescia avevano fatto sapere già la loro intenzione di chiedere l'espulsione. Ma gli va dato atto che altri, al suo posto, non dovendo limitare i danni di papà, si sarebbero imbullonati al seggio per almeno altri sei mesi, così da maturare il diritto, fra una quarantina d'anni, al vitalizio: «Sono sereno, so cosa ho fatto e soprattutto cosa non ho fatto. In consiglio regionale ci sono stati avvenimenti che hanno visto indagate alcune persone. Io non sono indagato, ma credo sia giusto e opportuno fare un passo indietro per il movimento».
Parole studiate una per una, come il giorno in cui diede la sua prima intervista «importante» alle «Invasioni barbariche» di Daria Bignardi e si preparò per bene con l'autista-consigliere Oscar Enea Morando: «Davanti al pc studia qualche frase saggia qua e là per poterla far sua in caso di necessità, vediamo insieme una serie di puntate precedenti per capire la strategia della conduttrice, cerchiamo di capire quali sono le domande di routine per poter preparare qualche risposta da catapultare negli schemi degli italiani, prepariamo un bigliettino con i tempi della scuola prima di un'importante interrogazione...». «Tre valori in cui credi», gli chiese la Bignardi. E lui: «Beh, l'onestà sicuramente... Poi... No, perché l'onestà credo sia uno dei valori più importanti». «Poi?». «Non saprei...». «Sono valori tuoi...». «L'onestà prima di tutto, essere onesti, oggi, in questo mondo...». Si sentiva così sicuro, in quei giorni, il giovane erede del Capo, da spiegare che no, non gli pesava il soprannome di Trota: «Mi sono fatto anche le magliette».
Alla giornalista di Vanity Fair , per la sua prima vera intervista, diede appuntamento sul lago d'Iseo, dove arrivò con un'ora di ritardo al volante di una fiammante Audi A3. Spiegò che aveva un solo mito, suo padre: «È sempre stato il mio modello. Quando lo vedevi passare a Gemonio, dietro c'ero sempre io, con le mani in tasca come lui. A dieci anni ero già sotto il palco dei suoi comizi ad ascoltarlo». Quando gli fu chiesto se avesse mai provato delle droghe, rispose: «Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga». Spiegò quindi che il Mezzogiorno doveva puntare sul turismo anche se «sullo stato degli alberghi, giù, c'è tanto da fare». «Lei c'è mai stato?». «Mai sceso a sud di Roma».
Bocciato a ripetizione agli esami di maturità, disse che si abbeverava alla cultura paterna: «Amo la storia, come mio padre. Quando giriamo a Roma chiede continuamente: "Quella che chiesa è?". Sa sempre tutto, impressionante». Lo prendevano tutti in giro, per quelle bocciature. Perfino il Giornale del Cavaliere, amico di papà, si spingeva a pubblicare le battute più carogna del Web: «Il Trota non usa la posta elettronica perché ha paura di prendere la scossa». «Il Trota quando ha visto un quadro elettrico ha chiesto: chi è il pittore?». Ma lui, tranquillo. Sentiva dalla sua l'alone di quel «cerchio magico» familiare che oggi il «vero» sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini dice che «va distrutto in tutti i suoi elementi» con «una pulizia etnica, radicale, perché lì c'era un muro costruito attorno a loro che non permetteva a nessuno di mettere il naso dentro per vedere ciò che combinavano».
Un alone di amicizia, solidarietà, piaggeria. Che toccò vette ineguagliabili il giorno in cui sembrò che il «Caro Leader» avesse deciso di passare il testimone a lui, il Trota. «Io e Maroni siamo vecchi, siamo della Lega della prima ora. Noi dobbiamo lavorare per l'oggi e poi affidare il movimento a qualcuno che si sta formando», si inchinò Roberto Calderoli spiegando che quel qualcuno poteva essere proprio Renzo: «È la fotocopia del papà. Se lo facciamo crescere, avremo un ottimo cavallo da corsa». Roberto Castelli, deciso a non essere meno flessuoso nell'inchino, sviolinò: «La Lega prima che un partito è un modo di essere, quindi è naturale che un padre voglia trasmettere i propri valori ai figli. Conosco bene i figli di Bossi, quello più grande è un ragazzo eccezionale...». Il titolo di Libero fu da collezione: «I fedelissimi incoronano il principe: giusto così, buon sangue non mente».
Il guaio è che la Real Casa Senaturia, a quel principino adorato dai cultori delle gaffes (svetta sul web un video in cui si felicita per la scelta australiana di aprire un «training center» nel Varesotto per ospitare gli atleti impegnati in Europa: «Ci sarà un boom di collegamenti quindi sarà possibile trovare tanti canadesi in giro per Varese») ha riservato via via attenzioni crescenti. Fino al punto di prendere degli autisti-body guard apposta per lui. Come il già citato Marmello o Oscar Enea Morando, assunto il 5 agosto 2010 dal tesoriere Francesco Belsito con un contratto di 3.859 euro lorde al mese per 14 mensilità e il benefit di una casa arredata e presa in affitto dalla Lega (altri 9.600 euro l'anno: «Ma che casa! Un appartamento in una villa fantastica chiamata villa Paradiso... Il nome dice tutto!») nei dintorni di Gemonio.
L'uomo, dopo aver iniziato come autista del Senatur, racconta in un memoriale traboccante di punti esclamativi del quale ha già in mente la copertina (titolo: «Il giocattolo del Trota») di essere stato dirottato sul rampollo per una scelta diretta di Rosi Mauro e della moglie del Senatur Manuela Marrone. Indimenticabile il saluto al neoassunto dell'ardente vicepresidentessa del Senato al centro di mille polemiche in questi giorni per le spesucce messe a carico del partito e di Palazzo Madama in favore del suo diletto e impomatato cantante-segretario-boy-friend. Disse: «Benvenuto nel nostro mondo».
Gian Antonio Stella
10 aprile 2012 | 13:10

Politica, soldi e auto blu: la vita sognata dai figli e quella vissuta dal Senatur

Articolo del Corriere, da leggere.


Troppo comodo, scaricare sui figli. Sia chiaro, i viziatissimi «bravi ragazzi» di Umberto Bossi, con quella passione per le auto di lusso, i telefonini ultimo modello, le pollastrelle di coscia lunga, i soldi facili, se li meritano tutti i moccoli lanciati su di loro dagli italiani che faticano ad arrivare a fine mese e più ancora dai militanti leghisti che si tassano per comprare i gazebo e sono messi in croce in questi giorni dalle battutine feroci dei compaesani.
Deve essere insopportabile, per tanti volontari che vanno gratis ad arrostire polenta e salsicce (o addirittura il toro allo spiedo: maschio sapore celtico) alle sagre padane, vedere nei video dell'ex-autista la sfrontata naturalezza con cui il Trota afferra e si mette in tasca quelle banconote da cinquanta euro che a loro costano ore di lavoro in fabbrica o sui campi. O sapere che i soldi dei rimborsi elettorali al partito, soldi dei leghisti e di tutti i cittadini italiani, sono stati usati per affittare le Porsche di Renzo, tappare i debiti seminati da Riccardo o rifare un naso nuovo a Sirio Eridano.
La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo
                   
Ma sarebbe davvero troppo comodo, per chi vuole fare sul serio pulizia dentro il partito, scaricare tutto addosso a quei «monelli». Alla larga dai tormentoni sociologici, per carità, ma mettetevi al posto loro. Tirati su dentro un «cerchio magico», sono cresciuti come rampolli di una strana dinastia vedendo che la «Pravdania» pubblicava sei paginate d'untuoso omaggio per il genetliaco di papà («Sono più di venti anni che in questo giorno porgo i miei auguri al nostro amato Segretario...», scriveva con nord-coreano trasporto Giuseppe Leoni) e ne dedicava una intera al compleanno di Roberto Libertà: «Che fortuna avere 12 anni e festeggiarli in cima al Monte Paterno!». Per non dire di quell'altra che celebrava mesi fa una gara automobilistica del figlio di primo letto sul circuito del Mugello: «Weekend a tutto gas per Riccardo Bossi».



L'auto che Bossi Jr ha lasciato nel parcheggio della Regione Lombardia (Fotogramma)
Di qua assistevano alle sfuriate paterne (arricchite da corna, sventolio del dito medio, rutti e pernacchie) contro i lavativi e i «magna magna» e tutti quelli che vivevano «alle spalle dello Stato coi soldi del Nord» e di là vedevano mamma Manuela, pensionata baby dal 1996 quando aveva appena 42 anni, incassare per l'istituto «privato» Bosina («Scuola Libera dei Popoli Padani») contributi di soldi pubblici e leghisti (cioè ancora pubblici dati i rimborsi elettorali) così sostanziosi che Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur, detterà a verbale: «Ho appreso da Belsito che nel 2010-2011 gli era stato chiesto da Manuela Marrone di accantonare, per cassa, una cifra di sostegno per la Bosina pari a circa 900 mila o un milione di euro».
Di qua sentivano il papà declamare che lui sta «dalla parte del popolo che si alza per andare a lavorare alle quattro di mattina», di là lo vedevano a quell'ora semmai andare a letto. E leggevano nella sua stessa autobiografia «Vento del Nord» scritta con Daniele Vimercati («L'ho letta tre o quattro volte... È un libro che mi piace rileggere spesso», raccontò Riccardo al Corriere ) che di fatto, tranne 10 mesi all'Aci, lui non aveva lavorato mai.
Di qua ascoltavano lo statista di famiglia tuonare in tivù contro «Roma ladrona» e «i politici di professione», di là gli vedevano accumulare legislature su legislature al Senato, alla Camera, all'Europarlamento. Di qua si bevevano le sue battute da intellettuale da osteria («È una battaglia tra espressionisti e impressionisti: noi siamo Picasso e gli altri dei muratorelli ignoranti»), di là apprendevano dai ritratti giornalistici e dalle interviste della prima «signora Bossi» Gigliola Guidali o della zia Angela («Ha detto che sono buona solo a far bistecche! Lui! Ah, se le ricorda bene le mie bistecche, lui! Perché per anni solo quelle ha mangiato, quel mantegnù . Che se non mangiava le mie bistecche, caro il mio Umberto... Ooh! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato») che il padre era stato uno studente discolo quanto Lucignolo, che aveva lasciato per noia l'istituto tecnico per periti chimici a 15 anni per diplomarsi («La prima tappa della mia marcia di avvicinamento alla cultura fu la scuola Radio Elettra di Torino, un corso per corrispondenza») quando era già sulla trentina.


Cosa potevano capire quei figli dell'importanza della scuola, della cultura, della laurea, scoprendo che il padre si era fatto la prima tessera di partito alla sezione del Pci di Verghera di Samarate scrivendo alla voce professione «medico»? Che si era candidato alle sue prime elezioni facendosi presentare dal settimanale il Mondo come «Umberto Bossi, un dentista di quarantadue anni di Varese»? Che si era definito nella sua stessa autobiografia un «esperto di elettronica applicata in sala operatoria»?

Se ce l'aveva fatta lui, dopo avere imbrogliato la prima moglie spacciandosi a lungo per medico (testimonianza della donna: «Dovetti chiedere di essere ricevuta dal rettore. E lì, in quella stanza austera, un tabulato mi rivelò quello che sospettavo: mio marito non si era mai laureato, alla sua fantomatica laurea mancavano ben undici esami») perché mai non potevano sognare anche loro, i figli, di vedersi spalancare davanti una strada di auto blu, folle in delirio, richieste di autografi, stipendi extralusso, segretarie premurose, titoloni nei tiggì, salamelecchi parlamentari, collaboratori e sodali in adorazione perenne? Perché mai studiare e cercare una propria strada nella vita e magari sgobbare duro per farsi una laurea in architettura o in biologia se era tutto lì, tutto facile, tutto a portata di mano grazie alla politica?

Certo, non tenevano conto che quel padre capace di dire tutto e il contrario di tutto (memorabili le retromarce non solo sul Berlusconi «mafioso» ma sulla Lega baluardo della cristianità dopo aver mandato a dire al Papa: «Oè, Vaticano: la Padania non ha interesse a cambiar religione, ma l'indipendenza non è in vendita. T'è capi'?») aveva anche uno straordinario fiuto politico e una capacità formidabile di parlare con il «suo» popolo. Ma come potevano capirlo, loro?

Gian Antonio Stella
11 aprile 2012 | 8:36

domenica 8 aprile 2012

Il tramonto del senatur



Ecco un bell'articolo che allieta ancor più queste giornate di festa.

Il tramonto del Senatur

Stefano Folli

«La Lega deve essere trasparente come un cristallo», sostiene il governatore del Veneto, Zaia. Impossibile non essere d'accordo: tutti i partiti, non solo il Carroccio, dovrebbero esserlo. Eppure la frase, pronunciata oggi, ha due significati. Può essere solo un'affermazione di maniera, di quelle senza tempo: valida dieci anni fa, due anni fa o fra tre anni.




Oppure può essere l'annuncio di una rivoluzione nel mondo leghista, quanto meno di una radicale rifondazione. Perché la vicenda Belsito dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che il partito di Umberto Bossi, nella sua veste attuale, è ormai morente.

L'assetto di potere che lo ha retto negli ultimi anni è destinato a disintegrarsi di fronte alle accuse che colpiscono l'improbabile tesoriere e chi ne ha appoggiato le iniziative. Certo, da un punto di vista legale occorrerà attendere che l'inchiesta trovi riscontri definitivi. Ma sul piano politico quello che emerge è inquietante.

Altro che trasparenza. Lo scandalo che investe il vertice del Carroccio rivela un panorama che dire opaco è eufemistico. Sembra di assistere all'ultimo capitolo di una saga politica che già da anni era entrata in una crisi irreversibile, parallela al declino fisico del leader storico. Del resto, la falsa bandiera della secessione conteneva fin dall'inizio i germi di un'ambiguità che nel tempo non poteva non logorare la Lega, sospesa fra i falsi miti celtici evocati nel «pratone» di Pontida e una gestione spesso spregiudicata del potere concreto, quello garantito dal lungo sodalizio di governo con Berlusconi.




Sta di fatto che l'alternativa alla pseudo-secessione, cioè il federalismo fiscale e istituzionale, alla fine si è risolta in un fallimento, oltre che in un potenziale aggravio dei conti pubblici. Un gioco politico a somma zero dietro il quale, nel frattempo, si allargava la zona grigia su cui oggi i magistrati vogliono far luce.

Ieri sera tutti garantivano che Umberto Bossi è estraneo al marciume. Questo è possibile e al momento non ci sono riscontri che contraddicono tale convinzione. Ma si tratta di un aspetto persino secondario perché Bossi è un uomo provato dalla malattia che da tempo ha perso il suo antico, ferreo controllo sul partito. E in ogni caso, anche se non tocca il vecchio leader, l'indagine travolge un «establishment»: tutti coloro che fingevano di non sapere o si voltavano dall'altra parte.

Per lo stesso Maroni, che si presenta come oppositore del «vecchio regime» e uomo del domani, non sarà facile imporsi come il rifondatore del Carroccio. Perché non c'è dubbio che nel prossimo futuro la Lega avrà bisogno di essere ricostruita dalle radici, anche sul piano ideale, ripartendo dalla buona amministrazione negli enti locali. E non è detto che ci sia una classe dirigente davvero innovativa, in grado di attraversare subito il fiume. Vedremo già in maggio, nel voto amministrativo, come reagiranno gli elettori. Quello che si coglie con chiarezza - e non riguarda solo la Lega, come è noto - è l'indecenza dell'attuale normativa sul finanziamento ai partiti. La pratica dei «rimborsi elettorali», decine di milioni di euro elargiti senza alcuna garanzia di correttezza e trasparenza, è inaccettabile per un'opinione pubblica bombardata ogni giorno dalle tristi notizie sulla recessione e la disoccupazione. «Moralizzare» dovrebbe essere la parola d'ordine trasversale dei partiti in cerca di nuova credibilità. Fare pulizia e impedire gli abusi. Ma nessun vertice finora ha affrontato questo tema. Attendiamo fiduciosi.