domenica 4 novembre 2012

Il Paese in ostaggio


Un ottimo editoriale di S. Romano. Da qui.


Il Paese in ostaggio
Quando abbiamo appreso che Silvio Berlusconi avrebbe fatto un passo indietro e lasciato ad altri la guida del suo partito, ho pensato che nessuno dei suoi futuri biografi, indipendentemente dal loro giudizio politico, avrebbe potuto ignorare la sua capacità di entrare e uscire al momento giusto. Il suo messaggio televisivo del 26 gennaio 1994 ha riempito un vuoto e suscitato molte speranze in una parte dei suoi connazionali. Il suo «passo indietro» di qualche giorno fa sembrava avere tolto di mezzo una ipoteca e un alibi. Il suo partito avrebbe smesso di aspettare, inerte, la decisione del padre-padrone e sarebbe diventato infine «maggiorenne», vale a dire costretto a scegliere un leader, un programma, una strategia elettorale. I partiti dell'opposizione avrebbero dovuto smetterla di fare della lotta contro Berlusconi una delle principali ragioni della loro esistenza. Avrebbero dovuto chiedere voti con un programma credibile e spiegare al Paese con quali alleati lo avrebbero realizzato. Il dibattito elettorale sarebbe stato meno fazioso, il confronto fra diversi programmi più utile al Paese e al suo futuro, la risposta dell'elettore meno condizionata dall'ingombrante presenza di un uomo che ha molto contribuito a dividere l'Italia in due opposte tifoserie. E i giornali non sarebbero stati costretti a riempire le loro pagine di accuse reciproche su temi che non hanno alcun rapporto con la realtà economica e sociale del Paese.

Con il suo intervento di ieri Berlusconi rende questa prospettiva molto più difficile. L'ex presidente del Consiglio ha confermato il suo messaggio precedente, ma lo ha contraddetto con una perorazione per se stesso che è parsa in molti momenti un regolamento di conti. Ha rivendicato i meriti della politica finanziaria del suo governo dopo lo scoppio della crisi. Ha accusato Germania e Francia, tra le righe, di avere complottato contro la sua persona. Ha implicitamente rimproverato al governo Monti di non avere mantenuto un impegno preso al momento della sua formazione (la riforma della Costituzione) e, più esplicitamente, di avere fatto la politica imposta da Berlino. Ha prospettato soluzioni demagogiche sulla fiscalità e sulla casa che sembrano essere la versione forbita delle filippiche di Beppe Grillo. Ha messo in discussione l'obiettività della Corte costituzionale e le funzioni della presidenza della Repubblica. Ha dipinto un quadro troppo ottimistico del Paese nel 2011 e troppo pessimistico nel 2012. Ha trasformato una questione personale in una questione nazionale e ha presentato il proprio caso come la prova della ingovernabilità del Paese. Ha dimostrato di avere un ego gigantesco, impermeabile a qualsiasi altra considerazione e preoccupazione. Si è chiesto ad esempio quale sarà domani la reazione dei mercati e degli investitori quando giungeranno alla conclusione che il leader del partito di maggioranza (così viene ancora percepito) ha sconfessato il governo dei tecnici, dichiarato guerra alle istituzioni e delineato un programma che riporterebbe il Paese alle condizioni del novembre 2011? Resta da capire come Berlusconi, dopo avere confermato il suo «passo indietro», intenda agire nei prossimi mesi per dare un seguito pratico alle sue analisi e battersi, come ha promesso, per la riforma della giustizia. Nessuno può negargli il diritto di fare le sue battaglie. Ma il suo partito, se desidera essere una forza politica nazionale, deve prendere le distanze dal fondatore. Se riuscirà a sbarazzarsi del «padre» potrà aspirare alla conquista di una parte del voto moderato. Se continuerà a essere il partito di Berlusconi, verrà inevitabilmente considerato uno strumento del suo conflitto d'interessi.

Sergio Romano